Perché tanti africani odiano la Francia?

di claudia

In gran parte del continente africano resiste – e cresce – un sentimento di astio e di feroce critica verso la politica francese e i suoi simboli. La francofobia ha radici culturali molto profonde e intricate che risalgano al colonialismo, ma l’ostilità nei confronti di Parigi è proseguita per varie ragioni fino ad oggi. Un atteggiamento che non ha confronti con le altre ex potenze coloniali europee. Ecco i motivi…

di Ludovico Bianchi

Quando il 28 Maggio il ministro degli esteri tedesco Heiko Maas ha annunciato che la Germania avrebbe risarcito la Namibia per i crimini commessi durante l’occupazione coloniale la notizia ha fatto relativo scalpore. Assai più clamore ha suscitato, poco dopo, l’ammissione ufficiale da parte del governo francese nel coinvolgimento dell’esercito di Parigi nel genocidio dei Tutsi del 1994 in Ruanda. Il massacro, a cui i soldati transalpini assistettero senza interferire, fu interrotto soltanto grazie all’avanzata del Fronte Patriottico Ruandese guidato da Paul Kagame, ed è stato proprio quest’ultimo, da allora Presidente del Ruanda, ad accettare platealmente le scuse dell’Eliseo rilanciando a una nuova epoca di collaborazione tra i due Paesi. L’enfasi posta da Kigali su quello che Kagame ha definito come qualcosa di più importante delle scuse, ovvero il riconoscimento della verità, ha inevitabilmente scatenato una nuova ondata di critiche verso l’operato della potenza europea più frequentemente accusata di interferenza nelle questioni africane.

L’astio verso la presenza francese in Africa ha raggiunto le dimensioni di un atteggiamento culturale, la francofobia, che è ad oggi uno dei fenomeni più evidenti in gran parte del continente (quantomeno nei paesi francofoni). Non si registra infatti un livello così alto di rancore e ostilità nei confronti di altre ex potenze coloniali: non c’è una eguale diffusione, per dire, di “anglofobia”, “belgiofobia” o “lusofobia”, nonostante le altre nazioni europee non si siano certo tirate indietro nelle varie fasi della corsa per l’Africa. La discriminante è da rintracciare nella natura stessa dell’impegno coloniale francese e nella permanenza della presenza di Parigi sul continente nei decenni successivi alle decolonizzazioni degli anni ’60.

Il presidente francese Emmanuelle Macron e l’omologo ruandese Paul Kagame. I due leader si sono riavvicinati di recente, dopo anni di tensione tra i governi di Parigi e Kigali. Il Ruanda ha accusato la Francia di ingerenze e nel genocidio dei Tutsi del 1994 e Macron ha ammesso le responsabilità dell’Eliseo

Interventismo postcoloniale

L’interventismo postcoloniale francese in Africa è multiforme nelle applicazioni, ma piuttosto costante con l’andare del tempo. Le dichiarazioni sulla “nuova era di collaborazione tra Francia e Africa” sono ormai diventate una costante di ogni inquilino dell’Eliseo, quasi costretto dalle circostanze strategiche a ripetere i temi, seppur adattando i toni, della conferenza tenuta da De Gaulle a Brazzaville nel ’44, momento storicamente identificato come il formale principio del processo di decolonizzazione dell’Africa francese. Ultimo della lunga lista, inevitabilmente, lo stesso Emmanuel Macron che, se da un lato ammette le colpe delle amministrazioni precedenti in Ruanda e riapre al dialogo con l’Algeria, sceglie però di presiedere come unico capo di stato europeo al funerale del Presidente Deby in Ciad, l’ “amico morto da eroe”, compianto simbolo e alleato chiave dell’interventismo di Parigi in Sahel.

Sebbene il fondamento della francofobia in Africa sia quindi da rintracciare nell’interventismo postcoloniale francese, un fenomeno avvenuto in maniera pesantemente sproporzionata rispetto alle ex potenze coloniali, le origini dell’astio sono da cercare nella cosiddetta mission civilisatrice, l’esplicito impegno delle prime Repubbliche francesi nel colonizzare con l’obbiettivo di esportare i valori dell’Occidente illuminista, non solamente dunque per i fini più prettamente commerciali ed economici che caratterizzavano i più datati approcci britannici e portoghesi.

Macron in visita a Dakar, capitale del Senegal, storico alleato politico di Parigi

La combinazione della “missione” che animava i primi esploratori francesi, da Brazza a Binger, e delle circostanze storiche della bulimica corsa per l’Africa di fine Ottocento ha però rapidamente determinato i limiti dell’impegno coloniale francese, annettendo nel giro di vent’anni un territorio immenso, privo di infrastrutture e capitale umano adatto alle attività estrattive, e mancante della salienza strategica che caratterizzava invece la gran parte dei possedimenti britannici o portoghesi in Africa. Non è un caso, infatti, come Londra e Lisbona si siano opposte molto più fortemente rispetto a Parigi alle mire indipendentistiche dei loro possedimenti africani, in Angola come in Egitto, eccezion fatta per l’Algeria per via del suo status di effettiva provincia francese. Le ex colonie transalpine lamentano quindi spesso di non aver nemmeno ricevuto quegli investimenti infrastrutturali e istituzionali che hanno spesso rappresentato il lascito positivo della maggior parte delle occupazioni britanniche.

Se la francofobia resiste a questi livelli nell’Africa francofona dopo decenni dalla decolonizzazione, però, è principalmente a causa della permanenza francese sul continente dopo gli anni ’70. Lungi dal limitare la propria ingerenza nelle ex colonie africane alle sole attività estrattive, l’Eliseo non ha mai lesinato nell’interventismo sia nelle ex colonie in Nordafrica e Sahel che in quelle approcciate successivamente come il Ruanda, colonia tedesca prima e belga poi, ma caratterizzata da una forte presenza militare francese a partire dagli anni Settanta. Un impegno internazionale così consistente e variegato ha esposto la Francia a due principali elementi di critica nelle varie sedi continentali ed internazionali.

Più livelli di interferenza

Il primo è la frequente interferenza nella selezione delle leadership locali, e in questo campo gli esempi si sprecano. L’assassinio di Sankara in Burkina Faso, quasi cinquant’anni di costanti interferenze negli avvicendamenti interni in Costa d’Avorio e Repubblica Centrafricana (dall’operazione Barracuda per deporre Bokassa fino al supportare direttamente Bozizè contro il rivale Patassè nella guerra civile dei primi anni 2000), il supporto a Sassou-Nguesso in Repubblica del Congo e Deby in Ciad, la mancata interferenza rispetto agli orrori Hutu in Ruanda e il più recente supporto in Libia per la coalizione anti-Gheddafi e, successivamente, per il generale Haftar rappresentano solamente la punta dell’iceberg di decenni di interferenze politiche francesi in Africa. Un atteggiamento, questo, particolarmente inviso alle popolazioni locali fin dagli albori della colonizzazione e che la Francia si è raramente contenuta dal portare avanti, nonostante le garanzie frequentemente sbandierate nelle sedi internazionali. Le prime promesse francesi di non interferenza nella selezione dei leader locali in Africa risalgono infatti, quasi ironicamente, ai primi trattati di Binger coi capi tribù di quelle che oggi sono Costa d’Avorio e Burkina Faso.  

Emmanuel Macron e il generale Haftar. La Francia punta a conquistarsi un posto strategico nello scacchiere libico

La seconda critica, frequentemente additata come il simbolo del neocolonialismo, è la supposta interferenza francese nelle politiche monetarie centrafricane esercitata tramite il Franco CFA. A prescindere dalla fondatezza degli argomenti dei sostenitori di questa tesi di fronte ad alcuni fatti concreti, come il fatto che l’adesione al sistema sia volontaria, che una valuta legata all’euro garantisca una volatilità molto più bassa rispetto a molte altre monete africane, e che Parigi non possa direttamente trarre profitto dalle riserve monetarie accumulate, il sistema è sicuramente uno dei più sgargianti alimentatori della francofobia. Macron stesso ha frequentemente annunciato, l’ultima volta nel Maggio 2020, di voler profondamente modificare (con l’introduzione della nuova moneta Eco, iniziativa però soggetta a molti ritardi) un sistema che risulta ormai essere principalmente un peso economico e un imbarazzo nel dibattito internazionale, dove la Francia viene frequentemente fatta bersaglio di accuse di neocolonialismo da tutte le potenze interessate a contenderle zone di influenza.

Tra queste capeggiano, negli ultimi anni, Russia e Turchia, che hanno avviato con Parigi una complessa partita a scacchi per assicurarsi il controllo di alcune zone chiave del continente. Per questi ultimi, alimentare la francofobia risulta essere una tattica molto utile per garantire scarsa popolarità alla collaborazione con Parigi, incentivando i governi locali ad approfondire soluzioni alternative. Se infatti la Russia sembra essere penetrata ormai nelle storiche roccaforti francesi, da Bangui (in collaborazione proprio con il Ruanda) fino in Mali, dove le proteste contro l’ennesimo golpe si sono svolte anche all’ombra di tricolori russi, la Turchia ha ormai cementato la propria presenza in Tripolitania, proponendosi come partner alternativo a quel mondo africano mediterraneo e francofono che ancora oggi vede Parigi come il proprio punto di riferimento al tavolo internazionale.

(Ludovico Bianchi)

Foto di apertura: themaghrebtimes.com

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