Nel cuore ferito di Bengasi

di AFRICA
Libia nel cuore ferito di Bengasi 02

A sette anni dal crollo del regime di Gheddafi, regna il caos. Il processo di pacificazione è minato dalle violenze tra milizie e le tensioni tra fazioni politiche alimentate da ingerenze straniere. Le macerie di Bengasi sono il simbolo di tutta una nazione da ricostruire. 

Muri crivellati dai proiettili, edifici sventrati dalle bombe, veicoli carbonizzati dalle esplosioni. I segni della guerra sono ovunque. Il centro storico di Bengasi, seconda città della Libia, cuore economico e politico della Cirenaica, non esiste più. Cumuli di macerie, frammenti di vetro, strade deserte, botteghe saccheggiate. Un silenzio irreale e l’odore acre del fumo avvolgono rovine annerite: ciò che resta degli eleganti palazzi costruiti negli anni Venti e Trenta dagli architetti italiani durante l’occupazione coloniale.

Per tre anni e mezzo, dal 2014 al 2017, Bengasi è stata un campo di battaglia. Le forze armate del generale Khalifa Haftar hanno combattuto e sconfitto le truppe jihadiste che controllavano la città dal 2012. Le organizzazioni umanitarie hanno documentato l’orrore compiuto sulla popolazione civile dagli uomini dello Stato islamico (Isis) e delle formazioni paramilitari affiliate ad altre organizzazioni terroristiche come Ansar al-Sharia e la stessa al-Qaeda. Centinaia di intellettuali assassinati – avvocati, professori, giornalisti –, donne violentate e lapidate, uomini torturati e impiccati, persino anziani e bambini decapitati. Testimonianze raccapriccianti affiorate solo quando le forze armate filogovernative sono riuscite a riprendere il controllo della città.

Quartieri rasi al suolo

I combattimenti più cruenti per la conquista di Bengasi sono avvenuti nei due quartieri-enclave di Ganfuda e di Sabri, dove si erano asserragliati gli jihadisti. Qui i soldati hanno combattuto strada per strada, in ogni edificio, per piegare la resistenza dei miliziani. Il 5 luglio 2017 Haftar ha annunciato la liberazione completa di Bengasi dai terroristi islamici. La vittoria è costata la vita a oltre diecimila persone.

Oggi le zone teatro della guerra, un’area di oltre sette chilometri quadrati, sono territori fantasma. Completamente spopolati sono la zona del porto, la medina, il mercato del pesce, l’antico bazar. I nascondigli jihadisti sono stati rasi al suolo assieme all’85 per cento degli stabili. I portici che fiancheggiano il Corso Omar al-Mukhtar sono sbrecciati dalle mitragliatrici, sventrati dalle granate, ridotti in rovina come da un tremendo terremoto. Devastati sono anche i più celebri edifici coloniali, come l’Ospedale Maggiore, il Palazzo del Governo, la sede del Consolato Italiano. Ristoranti, negozi, botteghe artigianali: tutto è annientato o pericolante. Impossibile trovare un rifugio sicuro, una casa risparmiata dalla furia distruttiva della guerra. Duecentocinquantamila bengasini (un terzo della popolazione della città) sono fuggiti e ora vivono in campi profughi o sono ospiti di parenti.

Per le vie di Ganfuda e Sabri si aggira solo qualche automezzo intento a sgombrare le macerie. Ci vorranno forse dieci anni per tornare alla normalità.

Trappole tra le macerie

Prima si dovrà garantire la sicurezza. Tra le rovine si celano ordigni inesplosi, bombe comandate a distanza coi cellulari: trappole disseminate dai jihadisti per mutilare e uccidere. Malgrado i proclami ufficiali delle autorità, a Bengasi sono ancora in agguato cellule terroristiche che, benché indebolite, rappresentano una minaccia persistente. Poche settimane fa, un’autobomba è esplosa in centro città, vicino al Tibesti Hotel: una zona affollata, soprattutto durante il mese del Ramadan. Incerto il numero delle vittime.

E l’attività dei terroristi s’intensifica con l’avvicinarsi delle prime elezioni libere dell’era post-Gheddafi. In questo clima di tensione il fotografo bergamasco Giovanni Diffidenti si è recato nel cuore ferito di Bengasi. Ha immortalato la devastazione, la disperazione, l’opprimente sensazione di insicurezza. «Mi sono mosso con una scorta armata a bordo di una macchina blindata – racconta –. Spostamenti veloci per non attirare l’attenzione dei cecchini e occhi ben aperti per non incappare in una trappola letale». Diffidenti è tra i pochissimi reporter occidentali ad aver ottenuto l’autorizzazione di spingersi nei due quartieri storici distrutti dai combattimenti, là dove c’era la roccaforte dell’Isis.

«Il reportage – prosegue il fotografo – è stato possibile grazie al supporto che ho ricevuto dall’Africa Research Centre e dal Center of Historical Cities and Sites, due organizzazioni di Bengasi con cui collabora Luca Bargilli, imprenditore anconetano, fondatore e amministratore di Show Yourself, che si occupa di progetti di cooperazione in Africa. Le imprese italiane possono giocare un ruolo importante nella ricostruzione di una città a brandelli… I tanti cittadini libici che ho incontrato per le strade devastate mi hanno manifestato tutta la loro voglia di riscatto, di pace, di ritorno alla normalità… Ci vorrà tempo, investimenti colossali, ma sono certo che Bengasi e l’intera Libia riusciranno a risorgere dalle macerie».

(Marco Trovato – foto di Giovanni Diffidenti)

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