Mali, fede e fango

di claudia

Le violenze jihadiste non fermano l’annuale restauro della Grande Moschea di Djenné. È il più grande edificio di fango al mondo e richiede ogni anno una meticolosa opera di risanamento, che coinvolge l’intera popolazione locale. L’instabilità e le violenze di matrice jihadista in Mali non hanno fermato il tradizionale crépissage di Djenné. Solo la pandemia ha frenato i “muratori di Allah”. Ma ora è di nuovo il momento di mettersi al lavoro

di Elena Dak – foto Afp e Bruno Zanzottera

La sera del lunedì, giorno di mercato, sulla piazza principale di Djenné vagano alcuni pezzi di immondizia e bucce, e c’è ancora qualche asino parcheggiato alla base della scalinata. La Grande Moschea che sovrasta il piazzale recupera la quiete con le luci dell’imbrunire.

Non si vedono più le comitive di turisti che venivano ad ammirare l’imponente edificio in fango (il più grande al mondo). Dalla primavera del 2012, il Mali – fino a quel momento un modello virtuoso di stabilità e di convivenza pacifica – è precipitato in una terribile spirale di violenze e insicurezza: attacchi terroristici, golpe militari, scontri armati. L’instabilità è iniziata con la rivolta indipendentista dei Tuareg del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad. Le tensioni ribollivano da tempo nelle estreme regioni settentrionali del Paese, dove serpeggiava una forte insofferenza nei confronti del governo di Bamako, accusato dalle popolazioni locali di averle relegate ai margini della vita politica ed economica. I rivoltosi sono stati ben presto estromessi dai jihadisti sahariani – rafforzatisi con il crollo del regime di Gheddafi –, abili ad approfittare della crisi di uno Stato fragile e corrotto.

Isola di sabbia

Le immagini del film Timbuktu del 2014 hanno raccontato con drammaticità l’arrivo dei gruppi estremisti armati nell’omonima città-oasi del nord del Mali e le conseguenze patite dai suoi abitanti. A colpi di piccone, i miliziani hanno distrutto le antiche tombe dedicate ai “santi”, dignitari religiosi venerati dalla popolazione, considerate Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco ma “blasfeme” per i jihadisti.

Djenné, città che nei primi secoli dopo l’anno Mille rivaleggiò con Timbuctu come centro carovaniero e faro per lo studio della dottrina islamica, non ha subito le terribili mortificazioni di Timbuctu. Le acque fluviali che la circondano rappresentano da sempre il limite – e insieme il baluardo – di Djenné: che può non espandersi oltre l’isola sabbiosa su cui sorge, ma al tempo stesso gode di una protezione naturale dai nemici. La sua grande moschea di fango è così sfuggita alla furia iconoclasta dei terroristi.

Sacra o impura?

La manutenzione dell’edificio è stata garantita – anche nei momenti più duri della crisi – dagli abitanti di Djenné che ogni anno, dopo la stagione delle piogge, danno vita a uno spettacolare restauro. La Fondazione Aga Khan ha finanziato il ripristino di alcune parti lignee della struttura. Solo l’arrivo del coronavirus ha prima interrotto e poi rallentato – per ordine delle autorità governative – le annuali attività di risanamento dell’opera. L’ultimo crépissage – “intonacatura” in francese – ha avuto luogo nel 2019, prima che la pandemia infierisse. Nel 2020 non è stato fatto nessun intervento e nel 2021 è stata riparata solo una piccola ala nella parte ovest dell’edificio. Ora c’è molta attesa per il crépissage del 2022, virus permettendo.

In epoche passate, la Grande Moschea di Djenné non era sfuggita alla devastazione jihadista. L’attuale edificio in stile sudanese fu costruito nel 1907 nello stesso luogo e sullo stesso disegno di quella originario, voluto nel XIII secolo dal re Koy Konboro, il primo sovrano locale a convertirsi all’islam. Le sue mura resistettero fino al 1830, quando il fondamentalista islamico Sékou Amadou decise, dopo aver conquistato la città, di abbattere la moschea perché “impura”. Soltanto dopo l’occupazione francese del Mali venne ricostruita, inseguendo il ricordo del suo antico splendore.

Foto di Bruno Zanzottera

Grande rito collettivo

La moschea sorge a pochi metri da uno degli affluenti del Niger, il Bani, i cui fondali limacciosi rendono disponibile il materiale argilloso che permette la costruzione e la manutenzione degli edifici secondo le tecniche tradizionali. È necessario attendere che il livello delle acque si abbassi fino a consentire un facile accesso e l’asportazione dal suo alveo dell’argilla adatta al rifacimento dell’intonaco. I lavori pertanto vengono intrapresi fra marzo e aprile, talvolta persino a maggio, a seconda della stagione. Trattandosi di architetture in argilla, quindi cedevoli all’acqua, l’intonaco esterno va ripristinato o rinforzato soprattutto in vista della breve ma spesso violenta stagione piovosa estiva. La fama di cui gode il rifacimento annuale dell’intonaco della moschea dipende dal fatto che vi partecipa l’intera comunità, uomini, donne e anche bambini, ciascuno con un ruolo preciso.

Si tratta di una pratica di carpenteria tradizionale che diventa rito dal profondo valore coesivo. Nel fango finiscono metaforicamente le relazioni tra le famiglie, si sigillano gli accordi tra quartieri, nel fango si regolano i rapporti sociali e in esso si radica ogni anno il senso di appartenenza alla comunità.

Il cemento del Sahel

Intorno all’annuale opera di sistemazione dell’intonaco ruotano molte dinamiche sociali. Essa diventa un collante molto forte per tutti i dodici quartieri di cui si compone la città. Di questi, i tre maggiori ospitano tra le proprie fila molti muratori esperti, i quali, per questa ragione, iniziano le attività di restauro e ne eseguono la parte più consistente; una o due settimane dopo intervengono gli esponenti degli altri nove quartieri più piccoli, che portano il lavoro a compimento. Il consiglio degli anziani della città sceglie un capo delle attività per ciascun quartiere ed elegge anche la donna che gestisce la preparazione dei pasti per gli operai del proprio quartiere.

Il banco (miscuglio di fango e paglia che nel Sahel viene usato più del cemento) è il materiale fondamentale per realizzare tutto il lavoro. La pula del riso e spesso la lolla, ossia l’involucro più aderente al chicco, è un ingrediente chiave in quanto, mescolato all’argilla, promuove i processi di fermentazione, che devono durare circa tre settimane e sono necessari a rendere il fango colloso al punto giusto per tradursi in un intonaco compatto e che abbia presa. Perché il banco sia perfetto è necessario aggiungere anche polvere di baobab e burro di karité. Solo quando dai mucchi di fango a riposo si sprigiona un certo odore acido, il materiale è pronto per essere posato e comincia un fitto andirivieni di persone di ogni sorta, munite di panieri per portare l’argilla dalle sponde al piazzale della moschea. Decine di uomini si arrampicano sui pali che fuoriescono dalle mura o su scale lignee provvisorie e tutti partecipano al passarsi di mano dei panieri di fango che devono giungere agli operai abbarbicati alla sommità.

Foto di Bruno Zanzottera

In città non c’è famiglia che non prenda parte al lavoro o, meglio, al rituale che ha la permanenza rassicurante di ogni rito ma anche la porosità, tipica di ogni tradizione, necessaria ad assorbire i cambiamenti sociali.

Questo articolo è uscito sul numero 1/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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