L’Oasi della Musica a Dindefelo, un sogno sulle note della teranga

di claudia

di Francesco Frunzio

Una coppia italiana lancia l’Oasi della Musica a Dindefelo, piccolo villaggio nell’entroterra del Senegal: un progetto internazionale che accoglierà artisti, volontari e famiglie da tutto il mondo. “Penso che essere bambini in Senegal sia la cosa più bella, e vogliamo valorizzarlo con una scuola internazionale di musica e danza.” Per ora c’è il terreno e tanta voglia di fare. Ma serve un aiuto per far decollare il progetto, che si apre a tutti coloro che volessero farne parte.

Questa storia ha inizio a gennaio 2023, quando Francesca (35) e Luca (40), tutti e due della provincia di Oristano, in Sardegna, insieme al figlio Inti, di appena due anni e mezzo, decidono di partire per un lungo viaggio a bordo di un furgone camperizzato alla conoscenza del Senegal e di sé stessi. Sono tante le cose che legano la giovane coppia al continente africano, Francesca è una mediatrice di lingua araba e Luca ha una certa predilezione per la musica, il ritmo, le percussioni e la grande terra da dove queste nascono.

Non è la loro prima avventura in Africa, ma è la prima volta che laggiù decideranno di lanciare un progetto culturale incentrato sulla danza e sulla musica, che coinvolga famiglie, volontari e professionisti da ogni angolo del globo.

Siamo a Dindefelo nell’entroterra del Senegal, nella regione di Kédougou, un villaggio fatto di capanne, piccole botteghe, gente spensierata, un fiume di bambini e di ragazzi non ancora diciottenni, e milioni di sogni non ancora infranti. Qui, Luca e Francesca arrivarono quasi per caso già nel 2018, mentre erano alla ricerca del Senegal più autentico e profondo, nonché della proverbiale teranga (accoglienza) del popolo senegalese. Da allora nulla è cambiato, la vita nel villaggio scorre sempre molto lentamente; senza frenesia, senza ansie: c’è il sarto, il giardiniere, il muratore, c’è chi coltiva, chi se ne va in bici o da qualche parte in sella a una vecchia Kawasaki e chi se ne sta tutto il giorno seduto a guardare la gente che passa, come i vecchi dei nostri paesi. Le donne vanno a prendere l’acqua al pozzo, i bambini tirano calci a una vecchia palla.

È la giornata ideale per parlare con lo chef de village per l’acquisto di un terreno, dove Luca e Francesca hanno pensato di collocare l’Oasi della Musica, e di iniziare una coltivazione di manghi per auto sostenersi, almeno parzialmente.

“Di creare qualcosa l’abbiamo pensato quando abbiamo visto che Inti giocava con i coetanei del posto. Qui le vie sono invase dai bambini, se ne stanno in gruppi di venti, trenta, anche cinquanta. I bambini stanno con i bambini, poi rivedono gli adulti ai pasti, quelli un po’ più grandi controllano i più piccoli; sono liberi, sono tantissimi, penso che essere fanciulli in Senegal sia la cosa più bella. È per questo che abbiamo pensato a una scuola di musica, i ragazzini qui sono un vulcano di energie e come gli metti uno strumento in mano sanno già suonarlo, per non parlare di come ballano. Così, a gennaio del 2022 abbiamo lanciato una raccolta fondi per acquistare il terreno, un ettaro di foresta dove far nascere il progetto. Ed ora eccoci qui, il primo passo è fatto, ma da qui alla realizzazione della scuola la strada è ancora lunga, confidiamo in persone come noi che vogliano partecipare e contribuire alla nascita di questa scuola, attraverso la raccolta fondi ma anche come membri del progetto”, mi racconta Francesca.

Lo chef de village si è dimostrato da subito favorevole, in alcuni villaggi la tradizione dello djembe si sta perdendo, altri, soprattutto quelli dell’entroterra, questa tradizione non l’hanno mai avuta. Gli djembe sono diffusi soprattutto lungo la fascia costiera del Senegal. Siamo stati noi a portare i primi strumenti a percussione qui, e la reazione della popolazione è stata travolgente: dai più piccoli ai più grandi, tutti hanno voluto provare il djembe (nato per altro poco più su nella costa, a qualche centinaio di chilometri) e tutti hanno dato prova di essere dei talenti innati, particolarmente portati per le percussioni e la danza.

Essere ragazzi a Dindefelo

“I giovani del villaggio vivono il quotidiano e il presente, non pensano al futuro – riferisce Luca – Sanno come devono campare e campano di quello. Al massimo il loro desiderio è quello di viaggiare o vedere l’Europa. In generale sono molto attaccati al lato umano della vita, alla vita solidale, con tutte le sue regole sottese e i suoi valori. La vita di comunità conta più di ogni altra cosa per la maggior parte di loro. Il mare, la natura, i comfort, di questo non gliene frega niente, o poco più. Anche i ragazzi ricercano questa forte identità di gruppo. Certo, anche loro hanno qualche idolo: la cultura rastafari, la musica Reggae; Ras Michael, Burning Spear, gli Wailers e Peter Tosh su tutti. Ma anche lottatori di lotta senegalese e qualche calciatore, ovviamente. Ma più ora che in passato. Eppure a sentirli parlare non sono superficiali neanche quando inseguono un sogno. Un giorno una bambina di neanche otto anni che mi aveva visto un attimo accigliato mi disse: “Luca, fatigué de vivre et peur de mourir” (stanco di vivere e paura di morire). Detta da una bambina, una frase così ti scuote ancora di più”.

Francesca a un battesimo di fede islamica

La vita a Dindefelo

I ritmi sono scanditi molto lentamente sotto i raggi del sole. A le forage (il pozzo), a circa 300 metri dal villaggio, c’è la fila. Le donne ridono e scherzano ma parlano anche di affari e del prossimo cerchio dell’abbondanza. “È un bellissimo punto d’incontro, c’è un grande terreno dove ogni giorno si riuniscono tutte le donne, ed ogni volta è una sfilata di vestiti variopinti e di volti raggianti. Qualsiasi cosa si dicano tra di loro è sempre accompagnata da un gridolino di giubilo o di stupore. Sembra un retaggio del periodo animista. Ora l’animismo è stato asfaltato dall’islam; rimane vivo solo all’interno di piccole comunità remote, nelle zone più remote. Parlando bene il francese sono riuscita a sapere qualcosa di più su di loro. Mi dicono che sono divise in sette, otto cerchi, chiamati anche ruote dell’abbondanza o mandala. Non ci sono banche qui e quei pochi soldi che girano vengono messi in circolazione attraverso questi incontri”, mi spiega Francesca.

Alcune maman sono di rientro, si muovono leggere nonostante i loro corpi tutt’altro che gracili e i secchi pieni d’acqua. È ora di pranzo, la comunità si raccoglie intorno alle capanne di argilla e paglia. All’interno di fatiscenti recinzioni, capre, galline, mucche e asini si muovono a proprio agio e liberamente come membri a tutti gli effetti dell’intera comunità. Tutt’intorno una fitta foresta, unica riserva naturale del Paese che ospita ancora dei leoni. L’acqua viene versata in enormi pentoloni, carbone e legna cominciano ad ardere, le piccole botteghe si fermano. Si sente un forte odore di carne arrosto, di amido di riso, di uova, spuntano manghi e altra frutta tropicale da tutte le parti. I nuclei famigliari, composti da 10, 15, 20 persone si raccolgono intorno al cibo. E, come risaputo, si mangia tutti insieme con le mani da un unico piatto.

Alcuni bambini si fermano a mangiare altri continuano a rincorrersi, sono tutti liberi di giocare, sono a carico di tutta la comunità. “L’educazione è talmente diversa che sembrano più lucenti, tutta questa felicità che hanno negli occhi arriva dallo stare insieme, dalla libertà che hanno. A tre anni si muovono già all’interno del villaggio come gli pare; sono felici perché vivono in un modo felice. Inti all’inizio voleva dormire, ora vuole sempre giocare, se c’è gente rimane sveglio tutto il giorno! Eppure, nonostante siano sempre in movimento, sono molto educati e rispettosi. Gli insegnano dai primi anni che in questo mondo devi stare al tuo posto e se non rispetti il vicino sono problemi. È la comunità intera che educa non la singola famiglia. Io ci gioco, li ascolto, mi vedono come un bambino che ne sa più di loro. Il primo e il secondo anno che siamo venuti a Dindefelo i bambini chiedevano l’elemosina, poi ci hanno portato i manghi, pensano che il turista venga solo per portare regali ma quando ti conoscono, quando capiscono che vali come persona, che hai qualcosa di bello, allora è come se ti considerano uno di loro”, mi racconta Luca.

È difficile stabilire di chi siano figli tutti questi bambini. Ci sono famiglie in cui un uomo ha tre mogli e 14 figli, nulla di strano: capita spesso quando lui ha un buon lavoro. “Noi abbiamo i nostri preconcetti, loro se la vivono benissimo. Non c’è solo poligamia, si tratta di vere e proprie famiglie allargate: genitori, zii, nonni, cugini, prozii, fratelli e sorelle che vivono insieme, in un unico nucleo dove non esiste la parola mio ma nostro. E non esistendo alcun digital divide tra generazioni, va da sé che gli anziani siano ancora il punto di riferimento più importante della famiglia. A tenere unite tutte queste teste è il dialogo: si parla molto all’interno di una famiglia senegalese, forse proprio perché sono pochissimi i computer e i telefonini in mano alle persone”, mi dice Francesca.

Le giornate trascorrono serene nella comunità, negli stessi terreni dove circolano tranquillamente asini, capre e galline; qui tutto è in perfetta sintonia con la natura e gli animali. “Qui tutti hanno la battuta sempre pronta. Si stuzzicano parecchio tra di loro, sono sempre pronti a scoppiare in una risata. Ma c’è anche tanta responsabilità: nel villaggio c’è molto controllo sociale, tutti sanno cosa succede in una famiglia o in un’altra. E non di certo per gelosia. Qui quasi tutti posseggono le stesse cose: ovvero nulla o poco più. C’è pure chi ha dei comfort, come un divano, o un tavolo; ma alla fine il divano è per gli ospiti, chissà perché preferiscono sedersi per terra. Tutti gli europei che arrivano qua, giudicano” mi racconta Luca.

La vita del villaggio non si ferma mai, Francesca e Luca dopo cena entrano nel camper per andare a dormire, fuori alcuni ragazzi gironzolano con in mano delle torce, si sente il verso di qualche uccello notturno e un continuo scricchiolare dei rami degli alberi, per via del vento e delle scimmie. Neanche nella notte più fonda la vita si arresta a Dindefelo, c’è un costante brusio umano, colonna sonora del silenzio più inimmaginabile e assoluto. È trabordante la joie de vivre di questa piccola comunità; ma non è tutta gioia, non è tutto suoni, colori e meraviglia, c’è anche tanto dolore in fondo all’animo di molte di queste donne. “Un giorno a una ragazza di 23 anni con cui ho stretto amicizia, ho chiesto se avesse subito l’escissione. E lei mi ha risposto: io certo, e tu l’hai fatta? Da lì ho capito come per molte donne questa mutilazione venga vissuta come una “normale” cerimonia tutta al femminile, sebbene ogni giorno ne muoiano circa un migliaio per emorragia e/o mentre danno alla luce un bambino. Eppure quando le chiedo: potendo scegliere, lo avresti fatto? Lei ha rotto il silenzio durato ben più di un decennio e a me si è rotto il cuore. Mi si è rotto il cuore per tutto il dolore che deve avere provato quando ancora bambina ha subito l’infibulazione” mi racconta Francesca.

Per chi volesse saperne di più sul progetto

Luca e Francesca sono da poco tornati in Sardegna. Da qui stanno gestendo una raccolta fondi tramite la loro associazione culturale (Vento Maestrale ventomaestrale.com), per raggiungere la somma necessaria alla costruzione della scuola. Contano di poter tornare in Senegal entro novembre. Ma questo dipenderà anche dalle donazioni che riusciranno a ricevere e dalle persone che aderiranno al progetto.

Le famiglie, i professionisti del settore musica e danza e i volontari che volessero far parte dell’Oasi della Musica possono contattare l’associazione tramite il loro sito ventomaestrale.com.

Foto di Luca Basto

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