di Giuseppe Taibi – foto di Luca Catalano Gonzaga
I contadini si ribellano alle multinazionali accusate di saccheggiare le terre e di sfruttare i braccianti. Monrovia ha svenduto decine di migliaia di ettari di terre fertili ai colossi dell’olio vegetale più consumato al mondo. Ma le denunce degli attivisti per la violenza usata contro i piccoli contadini hanno risvegliato la coscienza delle comunità rurali. Il caso virtuoso di una startup
Al netto degli allarmi sulla salute per via dell’alta concentrazione di grassi saturi, l’olio di palma resta per l’Africa, e in particolare per alcuni Paesi dell’area occidentale e centrale del continente, un’importante fonte di guadagno. Anche se spesso è appannaggio di grossi gruppi industriali internazionali e a scapito dell’ambiente. Nonostante in Occidente soprattutto l’industria alimentare cerchi di limitarne l’uso, il mercato mondiale viaggia su cifre considerevoli. Nel 2016 un rapporto dell’Onu attribuiva al settore un valore di 62 miliardi di dollari. D’altronde l’olio di palma è presente in moltissimi dei prodotti che si trovano facilmente sugli scaffali dei supermercati, come pure nei biocarburanti. Nel mondo sono al momento 43 i Paesi dove la palma da olio viene coltivata, in una percentuale che equivale al 10% delle terre destinate alla coltivazione, con una produzione media di 70 milioni di tonnellate l’anno.
All’arrembaggio dell’Africa
L’olio di palma resta quindi l’olio vegetale più consumato al mondo, rappresentando il 35% dell’intera produzione globale di olii vegetali sfruttando però circa il 6% delle superfici coltivate. È pur vero che il grosso dell’export proviene dall’Asia; basti considerare che i primi tre Paesi produttori del pianeta sono Indonesia, Malaysia e Thailandia. Ma i dati sull’Africa sono in crescita, con Stati come Nigeria e Ghana che fanno la parte del leone e altri che aspirano a ritagliarsi rilevanti fette di mercato. È il caso della Liberia. Qui il settore della palma da olio è fondamentale per la creazione di posti di lavoro e, di riflesso, per la sopravvivenza di alcune comunità rurali. Ma, come spesso accade in Africa, a pagarne il prezzo sono i piccoli produttori, sfruttati dalla grande industria, senza contare le gravi ripercussioni sull’ecosistema.
La brama delle multinazionali di trarre profitto dall’industria dell’olio di palma spinge imprese senza scrupoli a calpestare i diritti dei lavoratori devastando la natura. Se ne vede una dimostrazione plastica nella scriteriata opera di deforestazione. Alcune comunità liberiane negli ultimi anni hanno dovuto resistere alle forti pressioni, esercitate da grosse aziende, a svendere le proprie terre: si faceva leva sulle fragilità determinate dall’epidemia di ebola che la Liberia ha superato nel 2016.
Scandali e denunce
Ha fatto scalpore la denuncia di Global Witness, che attraverso un suo rapporto aveva puntato l’indice contro Golden Varoleum Liberia (Gvl), una società controllata dell’indonesiana Golden Agri-Resourced, il secondo più grande produttore di olio di palma al mondo, accusata di essersi impossessata di più di 13.350 ettari di terra tra l’estate e l’autunno del 2014. Gli attivisti hanno denunciato le violenze commesse ai danni dei piccoli contadini che si rifiutavano di cedere le proprie terre. Al rifiuto di arrendersi e firmare si rispondeva con le percosse e gli arresti.
Il colosso asiatico si sarebbe appropriato in questo modo – secondo Global Witness – di territori smisurati. Denunce circostanziate di abusi e sfruttamento del lavoro (anche minorile) sono state mosse da organizzazioni della società civile contro i colossi dell’olio di palma, che impiegano migliaia di braccianti nelle loro piantagioni.
Foreste a rischio
A fare eco, il gruppo Forest Peoples Programme, da tempo a difesa dei diritti delle popolazioni, che ha denunciato come le acquisizioni di terre siano avvenute senza il placet delle comunità locali. In tutto questo, Monrovia ha consentito lo “scippo”.
Attraverso un accordo siglato nel 2010, il governo liberiano ha accordato a Gvl la concessione, in cinque province sudorientali, di 220.000 ettari per i prossimi 65 anni. Già altre migliaia di ettari sono state concesse. Risultato: sulle terre oramai cedute sono state piantate le palme da olio, mentre Gvl continua a rafforzare la presenza nel Paese inaugurando una sede nella capitale. E le ripercussioni sull’ecosistema non tardano a farsi vedere. L’ampliamento delle terre coltivate va di pari passo con una micidiale opera di deforestazione, mentre gli incendi boschivi continuano a moltiplicarsi. Una minaccia alla biodiversità, troppo fragile e inerme per difendersi.
L’eroe della resistenza
Anche se in questo caso, le storie di uomini visionari e testardi offrono barlumi di speranza. Sui media africani è finita la storia di un imprenditore liberiano, Mahmud Johnson, che ha concepito un’idea volta alla salvaguardia dell’ambiente, alla sostenibilità e alla garanzia della produzione. L’imprenditore ha installato nelle comunità rurali delle mini-fresatrici, realizzate con tecnologia locale, in modo da aiutare i contadini a potenziare i loro raccolti, permettendo ai produttori su piccola scala di produrre l’olio in maniera più sostenibile e di generare guadagni sufficienti per rimanere indipendenti. Senza quindi piegarsi al potere delle multinazionali.
La storia di Mahmud Johnson è esemplare. Nasce in una cittadina sulla costa, in una famiglia di piccoli commercianti: la zia raccoglieva olio di palma dalle singole comunità per poi cederlo ai rivenditori. Crescendo, gli studi lo portano lontano dalle aree rurali: passa quattro anni a studiare economia al Dartmouth College, negli Stati Uniti, per poi rientrare a Monrovia, dove compie un tirocinio negli uffici del governo. Radiografando le stime sul mercato dell’olio di palma, a 22 anni ha la folgorazione: dà vita ad una startup, la J-Palm, che ha il doppio scopo di incentivare la produzione e di salvaguardare i diritti dei piccoli produttori.
«Nella maggior parte dei Paesi dell’Africa occidentale, le palme da olio crescono allo stato selvatico», ragiona Johnson, «la gran parte degli agricoltori ha accesso a quegli alberi ma non alla lavorazione dell’olio di palma, che viene affidata alle multinazionali straniere». Rivoluziona quindi il concetto alla base del processo produttivo.
Guadagni triplicati
Prima, gli agricoltori adoperavano metodi di estrazione inefficienti, usando bastoncini per pestare il frutto scartando però il nocciolo, che poteva invece essere lavorato per produrre olio. J-Palm ha quindi installato semplici fresatrici in venti villaggi-pilota. Le macchine raddoppiano il volume estratto dalla frutta e riducono del 90% i tempi di lavorazione. In cambio, i 500 agricoltori che li utilizzano danno a J-Palm il 10% dell’olio di palma che producono. Il risultato più concreto è che l’idea di Johnson si traduce nella risposta data a una domanda: in che modo la tecnologia aiuta le fattorie africane a prosperare?
«I produttori di olio di palma prima guadagnavano circa 33 dollari al mese, oggi i loro introiti sono saliti a 100», sottolinea orgoglioso Johnson. La stessa J-Palm impiega più di 500 liberiani nel marchio Kernel Fresh, che si occupa della vendita finale del prodotto sotto le più svariate forme. La società utilizza gli olii per produrre una gamma di saponi, shampoo, balsami e creme idratanti. Anche in questo caso, il successo commerciale del marchio va in direzione di una redistribuzione dei guadagni a sostegno delle comunità rurali più svantaggiate. I contadini oggi posso permettersi di tornare a scuola o di garantire ai figli l’istruzione.
Nuova consapevolezza
L’obiettivo di Mahmud Johnson è di cambiare l’approccio del mondo agroindustriale africano: offrire alle comunità l’opportunità di generare reddito attraverso le piccole aziende agricole. Ma la strada è ancora lunga. Le pressioni sui coltivatori esercitate dai colossi mondiali sono ancora forti. Anche se, persino nelle aree rurali delle zone più remote della Liberia, si comincia a prendere consapevolezza del proprio diritto a non essere sfruttati. Le proteste più eclatanti sono state quelle messe in atto dagli abitanti di 27 città e villaggi, che nel 2021 non solo accusarono la società malese Sime Darby di sfruttare le loro terre e di imporre ai lavoratori condizioni disumane, ma lanciarono precise accuse al governo, reo di complicità con i colossi agroindustriali. Una difesa simile alle tante battaglie intraprese dai contadini di tutto il continente a difesa della propria terra e del proprio futuro.
Questo articolo è uscito sul numero 3/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia clicca qui, o visita l’e-shop.