Insicurezza nel Sahel, un’analisi

di Valentina Milani
g5 sahel

L’assoluta necessità per tutti gli attori di avere una visione condivisa della definizione e della lotta al terrorismo, è stata uno degli elementi evidenziati nei giorni scorsi, a Dakar, durante la presentazione del rapporto sulla situazione di sicurezza nel Sahel, dedicato ai temi dell’estremismo e dello stato di diritto, ad opera del think tank AfrikaJom Center e della fondazione tedesca Konrad Adenauer.

Aprendo i lavori, Alioune Tiné, fondatore del centro AfrikaJom, ha ricordato che le difficoltà legate a un conflitto asimmetrico in un ambiente particolarmente ostile a causa dell’immensità del deserto, della presenza di montagne e foreste, facilitano l’esistenza di santuari per gruppi terroristici armati. Oltre ai noti gruppi dello Stato islamico nel Grande Sahara e Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani, ci sono milizie armate intercomunitarie e attori della criminalità transnazionale che si dedicano a ogni tipo di traffico.

Il rapporto sottolinea che il sentimento di esclusione e di emarginazione di frange significative di alcune comunità, le fratture e le disuguaglianze sociali, consapevolmente o meno, esercitano tentazioni e attrazione per l’ideologia dell’islamismo radicale. “Le popolazioni di queste comunità che si sentono abbandonate dallo Stato ”, ha detto Tiné, rilevando un “deficit statale reale dovuto all’assenza di infrastrutture e istituzioni statali in queste aree, dove spesso mancano servizi sociali di base”.

Ingo Badoreck, direttore regionale della Fondazione Adenauer, ha fatto notare che l’instabilità sviluppatasi negli anni in diversi paesi del Sahel ha richiesto misure repressive da parte degli Stati, con strategie talvolta “alla radice di gravi violazioni dei diritti umani. ”

Sulla stessa linea – riferisce DakarActu, dedicando un ampio spazio alla presentazione del rapporto –  l’ambasciatore tedesco in Senegal Stephen Roken chiede soluzioni che vadano oltre il paradigma esclusivamente militare. Il diplomatico è del parere che sia necessario sviluppare un approccio olistico basato sulla lotta alla povertà, alle sfide dell’ambiente e alla necessaria riflessione da svolgere in merito alle garanzie politiche.

Un’altra raccomandazione è l’analisi delle eredità precoloniali e coloniali e i loro effetti sul periodo postcoloniale, come suggerito da Mamadou Diouf, della Columbia University. La messa in discussione della struttura delle idee, delle loro genealogie, degli effetti e delle implicazioni che hanno sostenuto il progetto postcoloniale di costruzione di uno Stato-nazione ha mostrato un fallimento che si esprime negli estremismi religiosi, negli scontri violenti tra comunità, nei brutali interventi dei forze armate, forze di polizia nazionali, milizie di ogni tipo, gli interventi. Il professor Diouf fustiga inoltre la monopolizzazione dell’apparato statale da parte di un solo uomo a scapito dello sviluppo del resto della popolazione, uno dei possibili  fattori motivanti della radicalizzazione politica.

In occasione della sua presentazione, Bakary Sambe del Timbuktu Institute ha aggiunto che il malgoverno, l’impunità, l’insufficienza dei servizi sociali di base, le promesse non mantenute dei leader politici, la contestata gestione delle risorse pubbliche, la negazione della giustizia  sono altri fattori, oltre a quelli legati alla percezione della sincerità del discorso dei leader estremisti, ai social network e alle dinamiche di gruppo, alle offerte allettanti per i giovani oziosi, al sentimento di difendere una giusta causa.

(Céline Camoin)

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