Il bluff del decreto flussi

di claudia

di Meraf Villani

Il governo Meloni ha aumentato, sulla carta, il numero degli ingressi legali per i migranti in cerca di lavoro. Ma le procedure burocratiche e le limitazioni previste dalla legge sono tali da essere bocciate dai sindacati come dagli imprenditori. Per far fronte alla crescente offerta occupazionale, non soddisfatta, l’Italia avrebbe bisogno di più lavoratori stranieri (e di regolarizzare quelli presenti sul territorio nazionale)

Il decreto flussi, pensato dalle autorità italiane per permettere l’ingresso legale per finalità lavorative di migranti nel territorio nazionale, presenta una serie di ostacoli che ne limitano fortemente l’impatto e l’efficacia.

La quota di ingressi prevista dal governo per il 2023 è fissata in 82.705, la più alta degli ultimi dieci anni, ma decisamente mal distribuita e pensata per favorire alcune categorie trascurando altri importanti settori in cui c’è bisogno di forza lavoro.

Più della metà dei posti disponibili si riferisce a lavoratori stagionali principalmente nell’agricoltura, e riguarda i braccianti impiegati per poche settimane nelle raccolte (arance, pomodori, carciofi, mele).

Gli altri ingressi sono riservati ai settori dell’autotrasporto, dell’edilizia, delle telecomunicazioni, dell’alimentare e della cantieristica navale: numeri decisamente insufficienti a riempire i posti lavoro vacanti, largamente inferiori alle richieste delle aziende. Manca poi un riferimento al lavoro domestico, che già oggi occupa un milione e mezzo di persone, nel quale c’è una grande domanda, non soddisfatta, come ben sanno le famiglie italiane alla costante ricerca di “badanti”, quasi sempre straniere, per l’accudimento di propri cari.

Il decreto flussi non può essere considerato un antidoto alla migrazione irregolare, anche perché molti dei Paesi con i quali il governo italiano ha concluso accordi in materia migratoria non c’entrano nulla con gli sbarchi nel Mediterraneo o la rotta balcanica. Fra i tanti, cito Giappone, Corea del Sud, Guatemala…

C’è poi un’altra spina: l’ultimo decreto flussi ha reso la burocrazia legata all’assunzione di un lavoratore straniero ancora più complessa per il datore di lavoro. È infatti previsto l’obbligo per il datore di lavoro di rivolgersi prima di tutto a un Centro per l’impiego, dove verificare che non ci sia già sul territorio nazionale un lavoratore disponibile per quella mansione; solo una volta accertata l’impossibilità di trovarne uno, o se ne verifichi l’inidoneità, o che lo stesso risulti assente al colloquio di assunzione, si può procedere alla richiesta di assunzione di un lavoratore extracomunitario non presente sul territorio. È chiaro come tale scelta di rendere il sistema più farraginoso vada a corrispondere alla filosofia di un governo conservatore che ha fatto della battaglia “prima gli italiani” il principale strumento per vincere le elezioni.

Le richieste dei sindacati e quelle del mondo industriale per una volta coincidono. Anziché impantanarsi in lunghe e confuse procedure che peraltro obbligano il datore di lavoro a ingaggiare “al buio” personale che non ha la possibilità di valutare, bisognerebbe piuttosto favorire la volontà di assumere e regolarizzare lo straniero presente sul territorio senza documenti, ove già intercorrano rapporti di lavoro informali. È innegabile che lo strumento della sanatoria ha contribuito significativamente allo scopo, ma da solo non può essere uno strumento utile a regolarizzare la presenza di stranieri sul territorio o a incentivare un ingresso sul territorio che sia il più funzionale possibile. Gli accordi di cooperazione dovrebbero essere favoriti con i Paesi di maggiore provenienza degli ingressi irregolari, come Egitto, Tunisia e Bangladesh.

Soprattutto bisognerebbe riformare la legge Bossi-Fini, che considera la migrazione anzitutto come un problema di ordine pubblico e di sicurezza nazionale. Solo così si potrebbe rendere funzionale e snello il sistema di ingresso legale degli stranieri, per evitar loro di fare scelte estreme pur di mettere piede nell’ambita Europa, anche a costo della vita.

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