Festival del Cinema Africano, un film sull’arte del recupero

di claudia
system k

di Annamaria Gallone

Domani, sabato 30 aprile all’Auditorium San Fedele di Milano, verrà proiettato in occasione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina il film “System K”, un documentario di Renaud Barret che ritrae la potenza creativa ed eclettica di una nuova street art a partire dai materiali di recupero che si sta sviluppando nella giungla urbana di Kinshasa

Tanti ne ho visti, di fragile bellezza e incredibile inventiva in ogni parte dell’Africa, nei villaggi sperduti e nelle città  caotiche, fatti di tenero legno di samba, di latta piegata, di filo di ferro e cannucce, di cartone e di barattoli, di carta e di lana, di foglie e di legni, di vetri e di cocci. Giocattoli incantevoli e straordinari: trionfo dell’arte del recupero, sguardo divertito o incantato sul mondo degli adulti, il mondo dei bianchi.

La povertà che diventa ricchezza creativa, l’eloquente risposta del Sud del mondo alla desolante desertificazione della fantasia nel Nord del mondo. Coca-Cola, Nestlé, Bayer: tutti i nomi che governano il commercio mondiale sono rappresentati nei giocattoli di latta. Gli avanzi/rifiuti ancora una volta “generosamente” elargiti ai Paesi in via di sviluppo, che miracolosamente, per mano dei bambini, si trasformano in capolavori di arte post-moderna, rari momenti di spensieratezza di un’infanzia troppo spesso negata.

Nel film SYSTEM K, invece, a creare con il materiale di ricupero sono artisti adulti: nella giungla urbana di Kinshasa, in mezzo al caos sociale e politico, sta emergendo una scena di street art eclettica e sorprendente.

A mostrarcele è Renaud Barret, francese che vive nella Repubblica Democratica del Congo, con un documentario presentato al Panorama del 69esimo Festival di Berlino e in programma al FESCAAAL sabato 30 aprile presso l’Auditorium San Fedele, con ingresso libero.   Il film è nelle lingue originali, il francese e il lingala, con sottotitoli in italiano.

Il regista ha deciso di puntare la sua videocamera su dei performer stravaganti, emissari di una “street art” artigianale di una grande potenza creativa, esperti nel riciclaggio di materiali ed espressione della sofferenza di un popolo afflitto da estrema povertà e conflitti armati. In un luogo in cui “l’arte è un lusso fuori portata” per molti, dove la semplice ricerca di cibo, acqua o elettricità è la sfida quotidiana, emergono dunque nella folla variopinta dei quartieri più poveri, di notte e di giorno, alcuni personaggi incredibili, messaggeri simbolici che sembrano arrivare dritti da un altro pianeta, come Kongo Astronaute che cammina per le strade nella sua veste futurista e si proclama “un congolese nello spazio, lo spazio di Kinshasa”.

Una scena artistica vivida e inquietante: il regista non approfondisce le cause profonde della povertà e dell’oppressione che rendono il paese una pentola a pressione.  Segue invece gli artisti che non hanno altra scelta che viverci. “Il nostro lavoro si nutre di caos”, afferma Freddy Tsimba, uno scultore che assembla il suo lavoro con tappi di bottiglia, spazzatura, machete e praticamente tutto ciò che può accumulare in grandi quantità.

Nessun loft o studio per i creatori multidisciplinari qui raffigurati: un’arte creata sulla pelle, a volte molto rischiosa. “So che prima o poi potrei ammalarmi”, dice Géraldine Tobe, che, come molti degli artisti di questo film, lavora con plastica fusa e altri materiali potenzialmente tossici. Alla fine del film, un artista, che viene fatto rotolare per le strade in una vasca piena di sangue animale, solleva tali preoccupazioni in modo ancora più esplicito.

Barret fa capire allo spettatore, almeno implicitamente, la disperazione di questi creatori, anche se le opinioni sul loro lavoro e l’afro-funk elettronico ribollente della colonna sonora, dimostrano l’indomabilità del loro impulso creativo.

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