Fakebook in salsa africana

di Pier Maria Mazzola

Le fake news nate e rilanciate sui social network coinvolgono, ovviamente, anche l’Africa. L’agenzia francese Afp, che dedica una sezione del suo sito al fact-checking, ha smontato nei giorni scorsi il sedicente scoop di «2000 (sic) bambini» trovati in un aereo in Ciad, che erano stati «rubati» in Burkina Faso, Costa d’Avorio, Mali, Senegal e Guinea.

Si tratta di un video di tre minuti – condiviso 58.781 volte su Facebook – nel quale si vede il presidente ciadiano Idriss Déby osservare un aereo sulla pista di un aeroporto e poi visitare molti bambini ospitati in un capannone. I piccoli piangono disperatamente, assistiti da alcuni operatori con il logo “Children Rescue”. Il presidente interloquisce severamente con il comandante spagnolo dell’aereo; si vedono altri uomini e donne bianche seduti a terra. «Si tratta di una rete di pedofili. Oppure è per ucciderli e per venderne gli organi. È inammissibile», sono le dure dichiarazioni di Déby.

Ora, quello documentato nel video è effettivamente uno squallido episodio, ma che si è verificato nel 2007, quando l’associazione francese L’Arche de Zoé stava per imbarcare ad Abéché, in Ciad, destinazione Francia, 103 bambini sudanesi del Darfur, destinati a essere adottati, ditero congruo compenso, da famiglie francesi. Operazione evidentemente effettuata in violazione della legislazione sull’adozione e che portò a pene pesanti per i suoi autori. Ma nulla a che vedere con una presunta, recente retata di «2000» piccoli. Tra l’altro, basta guardare il volto di Déby nel video, visibilmente non più lo stesso dodici anni dopo, per rilevare l’anacronismo. Il video risulta tuttora presente nella pagina Facebook “Radiosalam Bko Mali”. per quanto con avviso di «Informazione falsa».

Un’altra fake virale di fine 2019, sempre sul social network di Zuckerberg e anche su Twitter, denuncia il fallito tentativo di consegna di armi francesi a Boko Haram. Si trattea di sei foto che mostrano un container con fucili a pompa e altre armi racchiuse in cartoni, in mezzo a sacchi di gesso, «destinate a Boko Haram e agli Ambazoniani» (i ribelli anglofoni del Camerun). Le immagini – esiste anche un video sul canale YouTube “Chosenozo” che mostra la vera conferenza stampa da parte delle autorità doganali al porto di Tincan, Lagos – sono sostanzialmente reali; si riferiscono però a un carico proveniente dalla Turchia, con armi anche dall’Italia e dagli Stati Uniti, intercettato il 23 maggio 2017. Nei primi nove mesi dello stesso anno, precisa il fact-checking di Afp, sono stati quasi 3000 i fucili a pompa venuti dalla Turchia sequestrati in diversi porti nigeriani.

Rimane incerta l’effettiva destinazione dei carichi. «I primi risultati delle indagini – annunciava nel settembre 2017 il portavoce delle dogane nigeriane alla vigilia di un incontro con l’ambasciatore turco – rivelano che i responsabili di queste importazioni di armi sono cittadini nigeriani: gruppi mafiosi che operano in Turchia e che di là organizzano il traffico» con il supporto di una compagnia petrolifera locale.

Andando di poco a ritroso potremmo trovare delle fotografie fatte passare per le immagini di prigionieri africani maltrattati e amputati in Libia per venderne gli organi (di nuovo!) in Europa. Un «allevamento umano», lo ha definito qualcuno sull’estinto sito Mauritania.com. Che ha aggiunto: «Con la benedizione dell’Unione Europea, hanno creato il mercato nero di tutte le parti del corpo umano. Hanno decretato che il popolo nero sia la carrozzeria umana». Chi ha messo la parola fine a questa «particolarissima fattoria» liberando oltre 2500 africani sarebbe stato il «maresciallo Haftar». Si tratta invece di migranti in centri di detenzione libici – alcune foto sono arrivate anche sulla stampa italiana – e anche di situazioni drammatiche immortalate in Nigeria, in India o… in Venezuela.

Più innocua è la copertina di Times farlocca – peccato non sia stata vera – diffusa a partire da un account Twitter apparentemente algerino e poi su Facebook, che consacrava «il popolo d’Algeria» personalità dell’anno 2019. (Il lusinghiero titolo è invece andato a Greta Thunberg).

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