24/07/2014 – Sudan – In aumento la persecuzione dei cristiani

di AFRICA

 

Celebrato dalle dirette televisive, l’arrivo di Meriam a Roma è un innegabile successo per la diplomazia italiana che però non deve far dimenticare la sorte dei cristiani in questo Paese diretto da un presidente, Omar al Bashir, ricercato per crimini di guerra e genocidio in Darfur e sul quale pende un ordine d’arrresto della Corte Penale internazionale: tutto questo non solo non ha impedito a Bashir di viaggiare in diversi Stati africani ma neppure ha frenato di un millimetro la sua azione repressiva.

Un quadro fosco aggravato dalla disgregazione, a tre anni dall’indipendenza, dello stato scessionista del Sud Sudan con l’afflusso di milioni di profughi: il giovane Paese africano guidato dal cristiano Salva Kiir non è ancora riuscito a lasciarsi alle spalle l’estrema povertà e le tensioni tribali che hanno portato a svariati tentativi di golpe e a una sorta di guerra civile permanente.

Mentre si concludeva la vicenda di Meriam con la mediazione del vice ministro Lapo Pistelli, il governo sudanese annunciava il blocco dei permessi per erigere nuovi edifici di culto. I cristiani qui vengono perseguitati e discriminati: è una regola non un’eccezione, che si sta diffondendo ormai in Medio Oriente dove è arrivato il nuovo Califfato di Abu Bakr Baghdadi. Il ministro degli Affari religiosi, Shalil Abdullah, ha fermato la costruzione di nuove chiese affermando che è in atto una riduzione del numero dei fedeli. Pochi fedeli non hanno bisogno di nuove chiese, questo è il suo ragionamento.

Ma le cose non stanno esattamente così. Da quando il Sud Sudan, a stragrande maggioranza cristiana, si è dichiarato indipendente, tutti i cristiani stranieri sono stati espulsi dal Sudan, popolato per oltre il 70 per cento da musulmani. Molte chiese sono state distrutte con la scusa che dovevano trasferirsi da Khartoum a Juba. E immancabilmente Omar Al Bashir ha promesso di applicare un’inflessibile versione della sharia.

In realtà la minaccia per il regime non sono certo i cristiani. Sono i giovani le vere mine vaganti per la stabilità di Al Bashir, soprattutto per l’influenza delle rivolte in Egitto e Libia. Appare evidente come un regime autocratico come quello sudanese, simile per certi aspetti all’Egitto di Mubarak e soprattutto alla Libia di Gheddafi, tema una sorta di “contagio” rivoluzionario con esiti imprevedibili. Le prime avvisaglie si sono avute tra il settembre e l’ottobre 2013, quando il regime ha deciso la sospensione dei sussidi petroliferi, con un raddoppio del prezzo del carburante. Il presidente Bashir ha giustificato i provvedimenti con la necessità di far fronte alla crescita dell’inflazione e all’instabilità dei tassi di cambio. Ma la reazione della piazza è stata veemente e guidata proprio dai giovani.

Queste sommosse hanno messo in luce due fattori. Il rapido peggioramento della già difficile situazione economica sudanese, che ha indotto Bashir alle contestate misure di austerity. La crisi è iniziata nel luglio 2011, quando il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza. Nei territori sottoposti oggi alla sovranità di Juba è concentrato il 75% delle riserve di greggio precedentemente gestite da Khartoum. Perdere il territorio del Sud Sudan ha significato per Khartoum rinunciare a gran parte degli introiti derivanti della vendita di petrolio.

Il secondo fattore è il ruolo che i giovani possono giocare nel preparare un cambio di regime. Per la prima volta le manifestazioni hanno unito giovani di ogni provenienza, superando le differenze di classe o status sociale. Il regime se n’è reso conto e nel periodo più intenso della protesta ha introdotto forti limitazioni all’uso di Internet, privando i manifestanti dello strumento dei social media.

Ma finora i militari, la spina dorsale del regime, a differenza di quanto accaduto nel vicino Egitto con la caduta di Mubarak nel 2011, non hanno mostrato segnali di cedimento. La piena adesione alla sanguinosa repressione decisa da Bashir sembra essere la prova della fedeltà delle forze armate al regime.

Ma c’è un terzo elemento che può giocare un ruolo di destabilizzaione. Sono le formazioni jihadiste che trovano terreno fertile nelle situazioni di disordine politico e di precarietà sociale, infiltrando le proteste contro il potere. Il Sudan ha rappresentato, specialmente negli anni Novanta, uno dei principali incubatori africani del terrorismo islamico e i gruppi radicali sono sempre presenti e attivi.

Il Sudan è stato finora risparmiato dal contagio rivoluzionario che ha investito il Nord Africa. Ma i fattori di disgregazione sono molteplici: una popolazione logorata da quasi tre decenni di guerra e di privazioni, una classe dirigente al comando da venticinque anni e priva di una forte legittimazione, un’acuta crisi economica e lo shock provocato dalla divisione del Paese nel 2011. Per il ricercato Bashir si profilano tempi difficili. – *Alberto Negri – Il Sole 24 ore

 

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