Zero mi sta piacendo. E qui (senza spoiler) spiego perché

di Stefania Ragusa

La prima cosa che voglio dire rispetto a Zero, la serie che ha debuttato oggi su Netflix e che racconta Milano vista e vissuta da giovani nati e cresciuti in Italia ma che hanno genitori partiti dall’Africa, è che ho aspettato di vederla per scriverne, saltando scientemente la conferenza stampa, il tam tam pubblicitario, le conversazioni social e tutto quello che mi avrebbe potuto distrarre nella mia valutazione.

Antonio Dikele Distefano, il giovane scrittore di origine angolana che è stato coinvolto nella scrittura del soggetto, mi aveva tirato un paio di bidoni due anni fa, quando il progetto cominciava a muovere i primi passi e avrei voluto intervistarlo. Senza farne una questione di lesa maestà, mi era un po’ passata la voglia di cercarlo. Ho aspettato quindi tranquillamente il 21 aprile e la fine della mia giornata di lavoro per mettermi a guardare e farmi la mia opinione. Che è molto positiva. A partire da un dato che riguarda la cosiddetta presenza mixed e nera, che qui non è correttamente e politicamente imposta per rappresentare una realtà aspirazionale,  ma sorge, come si suol dire, spontanea dall’esperienza quotidiana, seppur racchiusa in una deliziosa cornice narrativa non priva di elementi di magia. In altre parole, i giovani protagonisti della serie non sono progettati dall’alto in nome di un’inclusività posticcia e codificata (come quella che appiattisce troppe serie americane) ma affiorano dalla realtà del mondo in cui viviamo, fatto di quartieri periferici (la Barona sprattutto) dove si mescolano storie di varia umanità  (e non necessariamente un degrado di maniera), e  altri sberluccicanti ed escludenti più che esclusivi, non tanto per i neri quanto per chiunque scelga di incarnare altre possibilità di vita e di consumo.

C’è un protagonista, in questa serie, che fa il rider e si trova in quell’età meravigliosa in cui i giovani uomini, pur tra spinte ormonali non irrilevanti, esprimono il massimo dell’onestà sentimentale. Omar riflette sulla propria condizione di invisibile (a volte) e di frainteso (in altre), comprendendo subito che la soluzione non passa dall’importazione di contrapposizioni manichee e rovesciamenti dei paradigmi razziali, ma da un’assunzione di responsabilità, non priva di ironia, rispetto al proprio essere “gettati” nel mondo. L’invisibilità non è un destino o un torto, ma spesso una conseguenza delle nostre scelte, ci e si dice Omar. E non possiamo pensare che il mondo venga a porgerci attenzione e cure se non siamo disposti, a nostra volta, a rivolgergli attenzione e cura. Il mondo non è un inferno ma nemmeno un supermercato dove acquistare ogni cosa un tot al chilo. Non è neanche un campo di battaglia diviso dalla linea del colore. Non è chiarissimo in realtà cosa il mondo sia, ma di certo nessuno di noi è il suo ombelico. Omar e i suoi compagni di avventura ce lo ricordano quasi a ogni passaggio. C’è molta senegalesità in questo giovane, e intendo con questo termine quella particolare apertura verso l’umanità così frequente in Senegal e che nasce da una concezione mistica ed elevata della propria umanità. C’è molta buona musica nella serie, legata a presenze di certo spessore artistico, a partire da quella di Mahmood. C’è probabilmente anche qualche scivolone filologico. Per dire: non conosco nessun “vecchio” immigrato senegalese, con figli grandi, nati e cresciuti in Italia, che in qualche modo assomigli al padre di Omar e mi sembra che nelle bande giovanili milanesi sia molto presente l’elemento arabo che qui, invece, non si vede quasi. Ma questi sono quasi particolari secondari rispetto al desiderio di raccontare la trasformazione di questo Paese che attraversa l’intera narrazione, e di farlo per come essa sta avvenendo, tra spinte contraddittorie, passi avanti e scivoloni all’indietro. Non voglio spoilerare. Mi è stato chiesto di non farlo. Ci tengo però a condividere il mio giudizio positivo, influenzato probabilmente anche dal mio status di amante delle periferie.

Dimenticavo: la sto guardando con mia figlia, che ha dieci anni e, per quanto non ami il termine trovandolo inutilmente omologante, è anche lei un’afroitaliana. Le sta piacendo molto e si/mi domanda se anche il suo braccialetto, regalo della nonna senegalese per proteggerla dal male, potrebbe riservarle il dono dell’invisibilità o un qualche altro superpotere,  come è successo a Omar. Le ho risposto che il suo superpotere in realtà sta già dentro di lei, incurante del braccialetto, ed è quella mente biculturale che la sua appartenenza a due e più mondi le ha dato, dal momento in cui ha aperto gli occhi.

(Stefania Ragusa)

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