Sahel, come i gruppi terroristi “sfruttano” la pandemia

di Stefania Ragusa

In Africa la pandemia da covid-19 non si è tradotta nel disastro che tanti avevano annunciato e temuto quando è iniziata la stagione “straordinaria” in cui ci troviamo tutt’ora. Però è successo qualcosa di ugualmente grave, che continua a produrre vittime e sfugge ai radar dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Le condizioni eccezionali in cui ci siamo venuti a trovare e le ristrettezze economiche che ne sono derivate hanno fatto e continuano a fare gli interessi del terrorismo.

“Nonostante i numerosi sforzi di organizzazioni internazionali, di governi o di organizzazioni della società civile, il terrorismo nel Sahel sta continundo a gudagnare terreno. Le cause alla base del fenomeno di radicalizzazione verso un estremismo violento infatti sono ancora presenti. Le vite dei civili continuano ad essere profondamente influenzate da movimenti terroristici in grado di sfruttare l’instabilità nella regione. La pandemia globale, che ha colpito innumerevoli aspetti della vita, ha reso ancora più complessa la sfida della lotta al terrorismo nella regione” ammoniva Julie Coleman, senior research fellow e senior programme manager presso l’International Centre for Counter-Terrorism (Icct) dell’Aja, lo scorso novembre, intervenendo a una sessione dedicata agli esperti all’interno del IX meeting degli Inviati speciali per il Sahel, organizzato dalla Farnesina . “I gruppi del terrore hanno continuato a compiere attacchi, a diffondere la loro propaganda o a tentare di farlo, per reclutare nuovi membri. Il loro lavoro teso a seminare instabilità, divisione e violenza, è continuato senza sosta. I canali mediatici di gruppi come al Qaeda e lo Stato Islamico hanno pubblicato dichiarazioni ufficiali sulla pandemia. Al Qaeda ha attribuito la pandemia all’ingiustizia e all’oppressione nei confronti dei musulmani, invitando la gente ad approfittare dell’isolamento per convertirsi all’islam. Lo Stato Islamico ha sollecitato i suoi sostenitori a continuare la jihad globale e ad approfittare di una situazione satura, dal punto di vista della sicurezza, per lanciare attacchi”.

Nonostante l’appello di marzo scorso del Segretario generale delle Nazioni Unite per un cessate il fuoco globale in modo tale che la comunità internazionale potesse concentrarsi su come contenere la diffusione del covid-19, i gruppi come Jama’at Nusrat al-Islam wal Mu-slimin (Jnim, gruppo si sostegno all’islam e ai musulmani) e lo Stato Islamico nel Grande Sahara (Sigs) sono rimasti attivi.

“Sebbene la pandemia di covid-19 non abbia avuto il drammatico impatto che temevamo per il Sahel in termini di numero di casi – è il ragionamento di Coleman – la regione ha tuttavia subito le ripercussioni che hanno alimentato condizioni favorevoli alla diffusione dell’estremismo violento. Impatto negativo sulle economie, tensioni intercomunitarie, infrastrutture sanitarie sull’orlo del collasso, ostacoli nel sostenere e far rispettare i diritti umani e lo stato di diritto. Le difficoltà economiche hanno esacerbato la povertà e l’insicurezza alimentare. E sebbene sappiamo che la povertà da sola non è motore di terrorismo, può spingere persone prive di mezzi di sussistenza ad accettare le alternative presentate dai gruppi terroristici, come la possibilità di  ottenere un compenso o protezione. In un contesto di incertezza economica, gli estremisti hanno sfruttato le tensioni politiche e sociali, alimentate da disinformazione e propaganda. La paura e l’animosità verso gli altri, in un contesto di tensioni etniche, sono un’arma usata dagli estremisti da anni”.

Coleman sottolinea che nella lotta contro il terrorismo, è stato dimostrato che un approccio limitato alla sicurezza contro l’estremismo violento è insufficiente e che serve un approccio globale a tutti i livelli della società. È particolarmente vero nel Sahel, dove informazioni sulla segnalazione di violazioni dei diritti umani commessi dalle forze di sicurezza hanno già minato gli sforzi della lotta al terrorismo.

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