Léonora Miano e quell’ombra non solo africana

di Stefania Ragusa

Sono stati scritti molti libri sulla schiavitù e sulla tratta atlantica, ma di romanzi che provassero a tratteggiarne l’esordio e che lo facessero dal punto di vista africano, a memoria, non ce ne sono stati. Fino ad ora. Perché  La stagione dell’ombra di Léonora Miano (pubblicato da Feltrinelli quest’anno, ma uscito in Francia  nel 2013 e premiato con il Prix femina) esplora proprio questo pezzo dirimente e rimosso della storia subsahariana.
La vicenda ha inizio in una zona imprecisata dell’Africa centrale, nel villaggio dei Mulongo che una notte viene devastato da un incendio. Le fiamme divampano e nella foresta, a poca distanza, svaniscono nel nulla dodici uomini del clan. La madri degli scomparsi (“quelli che non sono stati ritrovati”) vengono riunite in una sola capanna, “così il loro dolore sarà contenuto in un luogo circoscritto, e non si spargerà in tutto il villaggio”. Mentre il capo Mukano, la vecchia levatrice Ebeise, gli altri anziani si interrogano sul da farsi e sulle cause di questo evento tragico e misterioso – provando a decifrare i segni intangibili e soprannaturali che arrivano alla loro percezione – il lettore familiarizza  con le dinamiche di questa piccola comunità, il sistema di credenze, riferimenti e relazioni che regola la quotidianità dei suoi membri.
Mukano, il suo infido e crudele fratello Mutango e Eyabe, annichilita e al tempo stesso indomita madre di uno degli scomparsi, separatamente e mossi da obiettivi diversi, lasciano il villaggio  e si mettono in viaggio. Per fare quello che devono. Scoprire quello che possono. A poco a poco, con tappe di disvelamento  che ricordano quelle di una tragedia classica, sapranno del coinvolgimento dei loro vicini bwele nella scomparsa dei dodici e anche nell’incendio, sapranno dei traffici che “gli uomini dai piedi di pollo” (i bianchi) intrattengono con il popolo della costa. Eyabe però incontrerà sul suo accidentato cammino anche il gruppo dei Bebayedi, “quelli che non si sarebbero mai conosciuti se non fossero stati costretti a fuggire” per sottrarsi al traffico di esseri umani. Quelli che, trovandosi improvvisamente immersi nella stagione dell’ombra, hanno messo da parte le differenze linguistiche e culturali per unirsi in un progetto di riorganizzazione della vita. Inizia  la tratta atlantica (che per la verità non viene mai nominata nel romanzo) ma con loro inizia anche la resistenza.

Léonora Miano, che è di origine camerunese e vive ormai da parecchi anni in Francia, è stata recentemente a Milano, in occasione di BookCity. Ed è qui che l’abbiamo incontrata. «La stagione dell’ombra non è un libro sulla schiavitù», ci ha subito detto. «Riguarda il vissuto e il dolore di una comunità semplice che improvvisamente è travolta dalla storia».
Cosa si è proposta con questo libro e a cosa fa riferimento il titolo? «Ho voluto raccontare una tragedia terribile, che segna una disfatta per l’intera umanità, provando a cogliere il punto di vista delle persone che in Africa sono state coinvolte ma sono rimaste sul Continente, uomini e donne che hanno perso i propri punti di riferimento in modo rapido e traumatico, senza trovare risposte alle domande che affollavano le loro teste.  L’ombra che repentinamente li avvolge, e non solo metaforicamente, è quella proiettata sul mondo da questa violenza indicibile. Ho cercato di dare un viso, un nome a queste figure rimosse e ignorate dalle storie ufficiali».
Sulla deportazione è stato scritto moltissimo, ma non dal punto di vista africano. «Infatti: è un tema doloroso su cui c’è ancora troppo silenzio, molto pudore.  Le persone sono reticenti e anche a scuola non se ne parla mai adeguatamente. E’ stato detto che gli africani hanno avuto un ruolo attivo nella tratta e questo ha creato un enorme e diffuso senso di colpa. Quello che non è stato sufficientemente ricordato è che la maggior parte delle persone si è ribellata e si è opposta come ha potuto a questo orrore. Le forze in campo però erano impari».
Come si è preparata dal punto di vista documentale?  «Sull’argomento esiste una vasta letteratura. Ci sono le memorie scritte dagli schiavi, le ricerche di storici subsahariani che hanno raccolto anche moltissime testimonianze orali. Io da sempre sono interessata alla questione, ho letto molto e a un certo punto mi sono trovata  con  tutto il materiale necessario per scrivere. Non lo avevo raccolto intenzionalmente: è stata una conseguenza della mia curiosità, del mio interesse. Così ho deciso di misurarmi con questo tema così impegnativo. Un’artista può entrare nelle storie più cupe e riportarle alla luce. Io l’ho fatto senza complessi perché appartengo a un’altra epoca. L’ho fatto pensando comunque che fosse un lavoro necessario, che andava a colmare un vuoto».
La stagione dell’ombra però non è una storia solo africana… «Mi sono ispirata a vicende reali e a comunità africane reali, anche quando, per dirne una, ho parlato dei Bebayedi. La capacità di reinventarsi dei personaggi, la loro resilienza, il loro smarrimento e il loro dolore appartengono però alla natura umana. Così come il bisogno di verità, l’abnegazione, la pietas. Ho ambientato questi sentimenti, queste emozioni in un contesto subsahariano molto accurato. Ma il mondo sull’orlo dell’abisso che prende vita, pagina dopo pagina, a partire dal villaggio dei Mulongo, ci riporta all’essenza dell’umanità».

(Stefania Ragusa)

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