L’armonia senza tempo dello M’zab

di claudia

di Marco Trovato

Algeria, visita alle città-modello di una comunità musulmana, rigorosa e tradizionalista, isolata nel deserto. Nel profondo Sahara algerino vive una comunità religiosa rimasta per lungo tempo impermeabile alle influenze esterne, creatrice di uno stile di vita e di un progetto urbanistico straordinariamente adatto alla povertà dei mezzi e all’ostilità del deserto

“Armonia”. È la parola che viene in mente quando ci si trova nelle città dello M’zab. Armonia dei colori pastello delle case: mille sfumature tenui e morbide come le dune del deserto. Armonia delle forme degli edifici: bassi e sinuosi come gli archi dei porticati che regalano l’ombra. Armonia del reticolo di vicoli aggrappati alle colline, intrico di linee che sembrano disegnate da artisti, non da urbanisti.

Ghardaïa, 700 chilometri a sud da Algeri, è una città armoniosa nel cuore del Sahara. Da lontano sembra un miraggio, un miracolo di acqua e vita in mezzo alla desolazione del deserto sassoso. «È il regalo di Dio ai suoi figli, per ringraziarli della loro fede e ubbidienza», mi spiega Salem, un amico algerino che mi accompagna nella visita. «Non è una semplice oasi: è una terra di pace e di prosperità creata da Allah per permetterci di pregare e vivere in armonia».

Insieme alle altre quattro cittadine della valle dello M’zab – El Atteuf, Melika, Beni Isguen e Bou Noura – Ghardaïa è la principale sede di un particolare ramo del mondo islamico, l’ibadismo, il cui unico altro nucleo importante si trova sull’isola di Djerba, in Tunisia. I fedeli, circa 150.000, qui sono chiamati mozabiti per la stretta relazione tra la loro esistenza come gruppo religioso e il loro isolamento in questa remota vallata. Gli ibaditi, “protestanti dell’islam”, furono continuamente perseguitati ed espulsi da ogni luogo, fino a che scelsero di insediarsi, agli inizi del XI secolo, nel cuore del deserto algerino, nell’allora disabitata valle dello M’zab. Scavarono con le loro mani pozzi profondissimi, crearono palmeti, costruirono grandi dighe per sfruttare le rare piogge fino all’ultima goccia. In meno di cinquant’anni diedero vita a una grandiosa pentapoli.

Modello urbanistico

Aliena a contese territoriali e ambizioni di dominio, fondamentale crocevia per le carovane dirette al Grande Sud, la pentapoli mozabita ha rappresentato per secoli una comunità completamente autonoma, impermeabile alle influenze esterne, creatrice di uno stile di vita mirabilmente adatto alla povertà dei mezzi e all’estrema ostilità del deserto. Nella sua semplicità, questa pentapoli fortificata ha racchiuso – sarebbe meglio dire “protetto” – per quasi mille anni una cultura straordinaria altrimenti condannata a scomparire.

Le città mozabite sorgono su collinette rocciose. Nel punto più alto si trova la moschea, sormontata dal tipico minareto a forma piramidale tronca. Le abitazioni sono state edificate seguendo una rigida distinzione di classe: sotto la moschea, le case per i tolba, gli studiosi del Corano, poi, man mano che si scende, le case dei notabili, quelle dei fabbri, e degli uomini con i mestieri meno nobili. Le case dei commercianti sono confinate nella parte bassa della collina, a ridosso delle mura della città, per non contaminare la purezza della fede con le attività profane. Le case sono disposte a cerchi concentrici intorno alla moschea; il dedalo di vie che si dirama dall’alto crea un suggestivo mosaico di luci e di ombre, un disegno urbanistico di armoniosa semplicità che ha affascinato architetti di fama mondiale come Le Corbusier e che fa delle città mozabite un patrimonio mondiale protetto dall’Unesco (la struttura delle città coincide con l’idea che Le Corbusier aveva dell’architettura urbana: una machine à habiter, senza accademismi, a misura d’uomo, in cui tutta la città diventa una grande abitazione).

Semplicità e rigore

La tipica casa mozabita, riconoscibile dalle numerose arcate, cupole e piccole finestre, è costruita in pietra, legno di palma, gesso, calce e sabbia, materiali naturali recuperati dal deserto. L’elegante semplicità delle forme e delle decorazioni manifestano il rifiuto dell’ostentazione e del futile, un tassello centrale della cultura mozabita. Le abitazioni sono pensate su misura per l’uomo, tutto è all’insegna dell’economia e del rigore.

Ancora oggi lo M’zab appare come un microcosmo dove il tempo sembra essersi fermato. Dove le preghiere, le prostrazioni e i riti secolari si rinnovano in villaggi “medievali” e dove l’armonia della vita comunitaria è regolata da una ferrea disciplina religiosa: sono condannati il lusso, la danza, la musica, l’appariscenza e “tutto ciò che può portare gioia effimera attraverso lo stimolo dei sensi”.

I colori e gli odori del suk sono fortissimi. I commercianti vendono di tutto: tappeti, spezie, verdura, capre, soprattutto datteri. Li chiamano deglet nur, “datteri della luce”, e sono fra le qualità più buone di tutto il Maghreb. Hanno la polpa gustosa e sono così trasparenti da lasciar intravedere il nocciolo. Una ricetta che le famiglie ibadite custodiscono gelosamente fa del deglet nur l’ingrediente principale di uno straordinario cuscus che viene offerto solo agli ospiti di riguardo.

Fin dalle prime ore del mattino, sulla piazza del mercato si danno appuntamento i cammellieri carichi di spezie e gli abitanti delle città vicine. Con un po’ di pazienza, sulle bancarelle del suk si può trovare qualunque cosa: polvere rossa di henné, tessuti colorati, erbe medicinali, accanto a vecchie scarpe, ruote di bicicletta, pezzi di motore, cellulari cinesi, macchine da cucire, componenti elettronici, orologi con Gps. Lo stesso mercante può vendere gabbie per uccelli, rose del deserto e pantofole colorate.

Donne recluse

È una comunità ricca e intraprendente, quella dello M’zab, la più tradizionalista e, nello stesso tempo, la più moderna del mondo musulmano. Se da una parte i mozabiti affermano di professare una fede pura che si rifà alle radici stesse dell’islam, dall’altra vengono considerati, a ragione, abili e dinamici mercanti. La fitta rete commerciale da loro creata si dirama oltre i confini nazionali, costringendoli a trascorrere molto tempo lontano da casa (circa un terzo degli uomini vive stagionalmente fuori della vallata), tra gli usi e i costumi della società moderna. Oggi, poi, è arrivata internet. I giovani hanno in mano gli smartphone. Le paraboliche portano nelle case le immagini televisive di tutto il mondo. Le comunità dello M’zab vivono in bilico fra tradizione e modernità.

Algeria, Mzab, El Ateuf, Una donna con velo (Foto di Frédéric Soreau / Photononstop / Photononstop via AFP)

Le donne vivono recluse, impossibilitate dalla legge locale ad allontanarsi. Sono sorvegliate attentamente dalle tiazzabin, le guardiane delle fede incaricate di vegliare sulla loro buona condotta. «Le donne non possono indossare più di quattro collane, parlare e ridere rumorosamente, indossare abiti occidentali, tatuarsi», mi spiega ancora Salem. «Se una viene colta a peccare deve confessare pubblicamente la propria colpa e fare una penitenza… Nei casi più gravi, come quello dell’infedeltà coniugale, rischiano di essere respinte dalla comunità». La vita delle donne mozabite si svolge tra le mura domestiche, in piccole abitazioni le cui rare finestre e terrazze permettono appena di vedere senza essere viste. Quando escono per recarsi da un’amica o in una bottega devono sparire completamente sotto un velo di lana naturale, lo ahouli, che tiene scoperto solo un occhio. Se incrociano un uomo, si devono girare verso un muro.

Un mondo che cambia

Lo M’zab è impregnato di spiritualità. Al visitatore sembra di trovarsi in un grande monastero a cielo aperto, dove ognuno cerca di guadagnarsi un posto in paradiso. Il ritmo della giornata è cadenzato dal muezzin, incaricato di lanciare cinque volte al giorno l’adhān, l’invito alla preghiera. Oggi, comunque, i costumi stanno cambiando e il rigorismo religioso si stempera. I Consigli degli Anziani sono preoccupati perché gran parte della popolazione giovanile è andata a vivere fuori delle antiche mura, sottraendosi al rigido controllo morale delle strutture tradizionali.

A Beni Isguen, la città santa dell’universo mozabita, incontro Tizegarine Slim, uomo colto e intraprendente, responsabile dell’associazione per la promozione delle arti tradizionali dello M’zab. «Grazie al formalismo che impregna la vita sociale dei mozabiti, l’urbanistica della pentapoli, è miracolosamente protetta», mi dice. «L’accademismo, il desiderio di ostentazione, il falso lusso sono aboliti. La semplicità delle forme, dei materiali, delle tecniche all’insegna dell’economia e del rigore fanno del minimo pezzo una lezione di architettura moderna». Oggi però lo M’zab e la sua cultura stanno subendo dei grossi cambiamenti e Monsieur Tizegarine non nasconde la sua preoccupazione: «Purtroppo, sempre più mozabiti si disinteressano delle tradizioni. Paradossalmente, mentre molti studiosi occidentali vengono a visitare le nostre cittadine, affascinati dalle soluzioni urbanistiche e architettoniche escogitate dai nostri avi, la gente del posto sembra lentamente staccarsi dalle proprie radici».

La preoccupazione è ancor più grande se pensiamo che lo M’zab costituisce uno dei centri storici più importanti di tutta l’Algeria e che, nonostante ripetuti tentativi di proteggerlo, negli ultimi anni il boom edilizio ne ha sfigurato le bellezze paesaggistiche, ponendo gravi problemi soprattutto alla preservazione dello stile mozabita e alla gestione delle risorse ambientali.

Questo articolo è uscito sul numero 4/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.

Condividi

Altre letture correlate: