L’altro lato del mondo, di Mia Couto

di AFRICA
L’altro lato del mondo, di Mia Couto

 

L’altro lato del mondo, di Mia CoutoSi potrebbe essere tentati di estrarre, da un libro come questo, i fili che ne rappresentano l’ordito: la donna, il passato, il dolore della memoria, la colpa e la paura, l’amore, il ruolo della parola scritta, quanto la storia incida sulle esistenze individuali, la vita e la morte… E altri ancora. Tutti temi, e non solo questi, che con rilievo diverso vengono intrecciati dalla navetta della trama. Ma che ovviamente non saprebbero, enunciati in questo modo, lasciar indovinare la bellezza e la ricchezza di linguaggio e di armoniche cui questo autore mozambicano di famiglia portoghese – uno dei maggiori scrittori lusofoni viventi – ci ha abituati.

In un Paese e in un tempo non specificati, che si evince poi essere un Mozambico contemporaneo, un padre padrone costringe i due figli – di cui il più piccolo, l’undicenne Mwanito, è la voce narrante – e un misterioso ex soldato che ha combattuto sempre con la divisa sbagliata a vivere – dopo la fine di una guerra – in quel che resta di un «abbandonato accampamento di cacciatori» nel cuore di una riserva. Silvestre Vitalício, un padre che ispira rabbia e pena, sostiene con forza che «il mondo era terminato e che noi eravamo gli ultimi sopravvissuti». L’unico che va e viene dall’«eremo» è lo zio Aproximado, con il suo camion con cui porta periodicamente allo strano gruppo – del quale fa parte anche un altro «semi-abitante», l’asina Jezibela – i generi di prima necessità. Ma anche lui sta alla finzione. E a Jesusalém non c’è una sola donna, fino al giorno in cui, non si sa come, appare Marta, la portoghese. L’incipit infatti è: «La prima volta che vidi una donna avevo undici anni e mi sorpresi di colpo così disarmato che scoppiai in lacrime».

Come in ogni opera di narrativa che si rispetti, solo un poco per volta – e si dovrà arrivare fino alla penultima pagina – il lettore metterà assieme i tasselli dei perché di tante stranezze.

Mia Couto si rivela anche questa volta un prestidigitatore della parola, continuando a smontare e rimontare a modo suo la lingua portoghese. E onore al traduttore, Vincenzo Barca, per come riesce a stargli al passo, per quanto rimanga, inevitabilmente, sempre qualcosa di intraducibile. Come il nome che il padre dà alla sua nazione personale, Jesusalém – che è anche il titolo dell’edizione originale del libro –, un gioco di parole in cui la città santa diventa una sorta di “Gesù-oltre”: per Silvestre, «in quel luogo Gesù si sarebbe scrocifisso». E Dordalma, la mamma che Mwanito non ha mai conosciuto e di cui nessuno osa dire come sia morta, sta per “Dolor-d’anima”.

È ben di più, naturalmente, che un gioco enigmistico: grazie anche alle sue invenzioni, ma non solo a queste, l’autore dà vita a un’atmosfera tutta sua, tra favola e verismo, con l’uso di metafore inattese e di dialoghi che non di rado sono sorprendenti pillole filosofiche.

«Nessun governo del mondo comanda più della paura e della colpa. La paura mi ha fatto vivere insignificante e schivo. La colpa mi ha fatto fuggire da me, disabitato dai ricordi. Era questo Jesusalém». E l’unico rimpianto nostro, a chiusura di libro, è che non sia stato mantenuto il titolo originale (nemmeno nell’edizione brasiliana, peraltro!).

Sellerio, 2015, pp. 287, € 16,00

(Pier Maria Mazzola)

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