La sete dell’Angola

di claudia

Reportage dal Namibe flagellato dalla siccità. I fiumi? Scomparsi. I pascoli? Bruciati. Le popolazioni sono allo stremo. Le province meridionali dell’Angola stanno affrontando una paurosa crisi ambientale e umanitaria. L’ong italiana Cospe è in prima linea per affrontare l’emergenza

testo e foto di Marco Trovato

Oggi pomeriggio un tuono ha scosso le capanne di Mahumbamena. Il sole è sparito dietro enormi nubi color piombo, i fulmini hanno disegnato cicatrici nel cielo, polvere e sacchetti di plastica hanno iniziato a turbinare nell’aria. Sembrava giunta la fine dell’incubo. È stata un’illusione. Il temporale si è dissolto nell’aria come un miraggio, senza che cadesse una sola goccia d’acqua. «Anche oggi siamo stati beffati», mastica amaro Augusto Tchombe, pastore di etnia mumuila. «Sono sei anni che aspettiamo invano l’arrivo della pioggia». Il ragazzo se ne sta accovacciato su un ceppo divorato dalle termiti. La boscaglia che un tempo circondava il villaggio è una distesa di alberi spogli, un intrico di rami spinosi e contorti, artigli protesi verso il cielo nel tentativo, disperato e supplichevole, di afferrare le nuvole. «Non sappiamo cosa stia accadendo, quale sia la causa di questa maledizione… Per propiziare il ritorno delle precipitazioni abbiamo deciso di rivolgerci a un feiticeiro. Sacrificheremo una vacca nera per cercare di ottenere la benevolenza del cielo. È l’ultimo tentativo per evitare la catastrofe».

«Mangiamo polvere»

Il sud dell’Angola è flagellato dalla siccità. Le ferite nel paesaggio sono impressionanti: fiumi scomparsi, terreni spaccati dall’arsura, raccolti e pascoli bruciati dal caldo prolungato. Secondo la Fao e l’Unicef, siamo di fronte alla peggiore crisi ambientale degli ultimi 40 anni. Le zone messe peggio sono le province meridionali di Namibe, Huíla e Cunene. Da tempo le agenzie umanitarie si sgolano per lanciare l’allarme. Se dovesse saltare anche la prossima stagione delle piogge, un milione e mezzo di persone (metà dei quali bambini e bambine sotto i cinque anni) sarebbe minacciato dalla carestia. Le povere comunità agropastorali che vivono in zone remote sono già allo stremo.

«Non so davvero quanto potremo ancora resistere», sospira Muafiquiape Kaliatha, un’anziana donna di etnia cuvale, il volto solcato da rughe profonde come le crepe della terra. Per raggiungere il suo kimbo, una manciata di capanne fatte di rami e foglie, ci sono volute sei ore di fuoristrada su strade pietrose e infuocate. «Viviamo isolati in un posto non facile, arido, ma questa è la nostra terra, dove sono sepolti i nostri antenati. Qui siamo nati e qui vogliamo morire». Parla seduta all’ombra di un grande albero, unico rifugio dal sole rovente, le braccia a penzoloni, lo sguardo velato da una patina gialla. «La polvere è dappertutto, si alza ad ogni passo, s’incolla alla pelle, la respiriamo, ci entra negli occhi. Non abbiamo più da mangiare. Gli ultimi pozzi si stanno prosciugando».

Batuffoli bianchi corrono nel cielo terso, alle 7 del mattino fa già caldo. Guilhermina Mengoia, 40 anni, tre figli, guarda sconsolata le colline pietrose e brulle che circondano il villaggio di Nascente. «Mai visto niente di simile», dice asciugandosi la fronte lucida di sudore. «I terreni che coltiviamo sono spaccati in zolle aride. Mangiamo a giorni alterni. Acqua con farina di miglio. Alla sera fatico a prendere sonno, la fame è un incubo che mi perseguita ogni notte».

L’aratro miracoloso

Per cercare di raggranellare qualche soldo le donne vendono carbone vegetale ai lati della strada. «Non vedono alternative, e hanno buone ragioni, ma tagliando le ultime piante rimaste non fanno altro che impoverire ulteriormente il territorio e acuire il problema ambientale», commenta Enrica Colazzo, 35 anni, cooperante pugliese della ong italiana Cospe. Dal gennaio 2022 dirige il progetto TransÁgua (finanziato dal programma Fresan dell’Unione Europea e cogestito con l’Instituto Camões, portoghese), che punta a rispondere alle sfide dei cambiamenti climatici migliorando la gestione delle risorse idriche disponibili e promuovendo strategie di adattamento e di resilienza che valorizzino il patrimonio di conoscenze dei pastori transumanti. «La sostenibilità non si impone, ma si compone assieme alle comunità locali. Noi costruiamo pozzi, promuoviamo la nascita di orti comunitari dove si sperimentano sementi locali che resistono alla siccità, e tecniche agro-ecologiche con irrigazione virtuosa, goccia a goccia. Non solo. Abbiamo importato in Angola il rivoluzionario sistema di aratura ideato dall’agronomo Venanzio Vallerani, che aiuta a riportare vita nel deserto». Tecnologia made in Italy capace di rendere fertili persino i sassi.

Il particolare aratro, a forma di delfino, è già stato sperimentato con successo nel Sahel e nel Corno d’Africa, dove ha permesso di coltivare anche in zone aride, secche, prive di riserve d’acqua. «È uno strumento prezioso per contrastare la desertificazione, ma il suo successo dipende da chi lo utilizza. Per questo abbiamo lavorato per sensibilizzare e coinvolgere le popolazioni beneficiarie del progetto. Si tratta di comunità isolate, estremamente povere, poco scolarizzate. Non conoscono le macrocause del “riscaldamento globale”, pur subendone gli effetti, ma hanno a cuore il destino del proprio territorio e custodiscono uno straordinario bagaglio di conoscenze che, se valorizzato, può fornire insegnamenti preziosi e soluzioni efficaci alle sfide che stiamo vivendo».

Si scavano pozzi a mani nude

Il capo del villaggio di Tchicueya ha la pelle grinzosa e avvizzita come i tronchi dei baobab. «Vedo i vecchi senza più forze cadere a terra, e non so davvero cosa fare», racconta con un filo di voce. «Non capisco cosa stia accadendo. Soltanto so che i corsi d’acqua sono scomparsi come le nubi nel cielo. Abbiamo perso i raccolti e la fiducia negli spiriti invocati in passato dai nostri padri. Da molto tempo non facciamo più i rituali per la pioggia».

La siccità ha prosciugato pure la fede. I campi di mais, miglio e sorgo sono una desolazione. Dove un tempo c’erano boschi di acacie, oggi restano foreste fossilizzate. La selvaggina è sparita. Rimangono solo zecche e scorpioni. E formicai giganteschi, torrioni di terra rossa che dominano il paesaggio. Si scavano buche a mani nude in cerca d’acqua, ma ogni giorno si fa più difficile. Kandeyè Mbanguluca ha braccialetti e cavigliere di metallo che luccicano sotto i raggi del sole. «Misuro la perdita del peso in base a quanto tintinnano sul mio corpo», rivela. Ogni mattina la donna scende al pozzo con una tanica d’acqua e il figlio piccolo appollaiato in braccio che succhia con avidità il seno flaccido. «Ho paura di perdere il latte», confessa. «Sento che non potrà durare ancora a lungo in queste condizioni. Mi ricordo quando ero bambina e il fiume era gonfio e generoso». Indica una lingua sabbiosa, arsa dalla sete, punteggiata dalle impronte di capre e vacche scheletriche. «L’acqua è sparita da tempo. Ci stiamo ammalando. Per curarci abbiamo erbe e radici. Ma per alcune malattie non c’è rimedio».

In fuga dalla fame

I corpi indeboliti dalla mancanza di cibo sono più vulnerabili. Si muore di malaria, tifo, polmoniti, dissenterie. Si muore di fame in un Paese ricco di petrolio, diamanti, oro, stagno, uranio, bauxite e fosfati. Nella provincia del Namibe si sventrano montagne per estrarre granito e marmo destinati all’esportazione. Le lastre vengono tagliate convogliando un flusso d’acqua ad altissima pressione sulle preziose rocce. Si svuotano autobotti mentre gli abitanti della zona non hanno da bere. Nei villaggi dei pastori himba sono rimaste solo le donne coi bambini. Gli uomini sono partiti con il bestiame: giorni di cammino in cerca di pozze e di foraggio, lungo le piste disegnate nel corso del tempo da antichi corsi d’acqua, oggi evaporati.

Un silenzio sinistro avvolge il paesaggio lunare e torrido. Ci si rifugia nelle capanne ricoperte di sterco dove in drappi logori si custodiscono le ultime provviste, una manciata di chicchi di mais. Chi può scappa dallo spettro della fame. Negli ultimi mesi la Croce Rossa ha registrato l’arrivo in Namibia di oltre cinquemila angolani fuggiti dai loro villaggi, ma molti altri potrebbero aver varcato il confine senza lasciare traccia. I più fortunati sono riusciti a raggiungere i campi per rifugiati allestiti per far fronte all’emergenza umanitaria. Tra le tende di Otuzemba e Opuwo i racconti dei sopravvissuti all’esodo forzato sono terribili: genitori costretti a seppellire i bimbi morti durante la marcia verso sud, famiglie attaccate da branchi di iene, gente divorata dai coccodrilli nel tentativo di attraversare il fiume Kunene, che segna il confine tra Angola e Namibia. È presto per capire l’origine di questa crisi. I dati pluviometrici sono eloquenti: dal 1997 c’è stata una progressiva contrazione delle precipitazioni che in alcuni anni hanno fatto registrare un picco negativo del 70% in meno rispetto alle attese.

La Corrente del Benguela

Un team di ricercatori internazionali sta studiando gli effetti dei cambiamenti climatici globali sulla Corrente del Benguela, la corrente oceanica che scorre lungo la costa sud-occidentale del continente, dal Capo di Buona Speranza verso nord. Le sue acque fredde e ricche di plancton che risalgono da una profondità di trecento metri rendono i mari di Namibia e Angola tra i più pescosi al mondo. Al tempo stesso interagiscono con l’aria sovrastante condizionando il clima.

«Qualcosa sta cambiando, ma è ancora presto per avere certezze», spiega Werner Ekau, biologo tedesco e coordinatore del progetto di ricerca che coinvolge scienziati provenienti da nove istituti oceanografici. Negli anni Sessanta nelle acque costiere si pescavano circa 5 milioni di tonnellate di pesce, oggi poco più di un milione e mezzo. «I pescatori della regione si lamentano, a ragione, che le reti delle loro barche sono sempre più vuote. Ma al contrario di quello che si potrebbe pensare non è colpa del sovrasfruttamento delle acque da parte della pesca industriale. I controlli sulle attività dei grandi pescherecci sono piuttosto efficaci. L’origine della crisi potrebbe invece essere legata all’innalzamento delle temperature dell’oceano e alla diminuzione dei livelli di ossigenazione e di nutrienti delle acque. Se così fosse – e lo potremo stabilire solo alla fine della nostra ricerca –, gli effetti di questo cambiamento non si farebbero sentire solo sulla pesca, ma anche sull’ambiente della regione».

Proibito nuotare”

Il deserto conquista terreno, minaccia i centri abitati. Attorno alla città di Tombwa hanno costruito una barriera verde per tentare di frenare l’avanzata delle dune. «In pochi anni abbiamo piantato cinquemila alberi, realizzando una cintura vegetale lunga diciannove chilometri», spiega Luzia Calenga dell’Istituto angolano di Sviluppo Forestale. «È il nostro ultimo baluardo, estrema linea di difesa alla desertificazione implacabile. Se fallisce saremo sommersi dalla sabbia e non avremo scelta che arrenderci e fuggire».

L’anziano custode della Lagoa dos Arcos, un’oasi d’acqua dolce nel cuore del Namibe, ritenuta sacra dalla popolazione locale, non sa nulla di climatologia, ma ha vissuto abbastanza per accorgersi che siamo di fronte a qualcosa di inedito. «Può sembrarvi impossibile, ma solo pochi anni fa in questo posto pescavamo con le barche». Dove?, chiediamo confusi. «Proprio lì, davanti ai vostri occhi». Con un gesto della mano abbraccia una piana desolata di arbusti e terra marrone. Sembra un immenso catino naturale, ma è vuoto, forse bucato. Non c’è una sola goccia d’acqua. Il bacino è completamente secco, arido. Dove un tempo c’erano le rive del lago c’è un cartello arrugginito: “Proibito nuotare”. Alle sue spalle riverbera la savana, spoglia e riarsa da un sole implacabile. In lontananza, all’orizzonte, luccica qualcosa, sembra acqua. Ma non è nient’altro che l’ennesimo, crudele miraggio.

Questo articolo è uscito sul numero 1/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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