Kenya, «erba legale per pregare»

di claudia

A Nairobi i rastafari chiedono la depenalizzazione della marijuana per uso religioso. La Rastafari Society of Kenya – riconosciuta dalle autorità come una vera e propria organizzazione religiosa – ha ingaggiato una battaglia legale con il governo per il libero utilizzo della cannabis, che i suoi adepti fumano per «connettersi con l’Onnipotente Creatore»

di Valentina Giulia Milani – foto di Tony Karumba / Afp

Avvolti dai fumi densi e profumati dell’incenso, in una casupola di lamiera nella baraccopoli di Kibera, a Nairobi, i membri della Rastafari Society of Kenya (Rsk) discutono su come portare avanti la loro battaglia del momento: legalizzare la marijuana per uso religioso. Lo scorso maggio hanno fatto ricorso alla Corte suprema per chiedere la depenalizzazione del consumo di cannabis in quanto «incostituzionale e ostile alla loro pratica religiosa». I rappresentanti della Rsk, guidati da Ras Lojironi, hanno lanciato la loro iniziativa all’indomani della storica sentenza emessa nel 2019 dal più alto tribunale del Kenya, che ha stabilito che il rastafarianesimo è da ritenersi una religione valida come qualsiasi altra.

Boom di discepoli

Secondo i rastafariani, la marijuana ha il solo scopo di «connettersi con l’Onnipotente Creatore» aiutando nella meditazione e nella preghiera. Per la legge del Kenya, invece, fumarla è un reato da perseguire duramente. I discepoli di questa religione sono frequentemente minacciati dalle forze dell’ordine, oltre alle denunce e agli arresti sulla base del Narcotic Drugs and Psychotropic Substances Control Act, la legge che prevede fino a dieci anni di reclusione per i detentori di cannabis per uso personale.

A portare avanti la battaglia legale potrebbe essere Mathenge Mukundi, primo avvocato rastafariano della storia del Kenya, che durante i dibattimenti in aula non indossa la tradizionale parrucca bianca di crine di cavallo – uno dei simboli più tenaci dell’ordinamento giuridico britannico, lascito dell’epoca coloniale – ma un turbante blu che raccoglie le sue lunghissime trecce.

I celebri dreadlocks sono tra i segni distintivi dei rasta, la cui dottrina religiosa propugna la liberazione degli africani e dell’umanità da ogni forma di oppressione, secondo il motto “pace, amore e unità”. Si stima che nel mondo i fedeli siano un milione. La popolazione più numerosa si trova in Giamaica. Il movimento in Kenya è descritto come in rapida crescita soprattutto fra i giovani. L’agenzia di stampa Religions News Service riferisce che lo scorso anno nel solo slum di Kibera un migliaio di giovani si è convertito al rastafarianesimo, dando sempre più corpo a un movimento, anzi una religione, spesso considerata con troppa superficialità.

Sulle colline Ngong, non lontano da Nairobi, Ras Lojuron Jaden, leader della Rastafari Society of Kenya, interra una pianta (non di marijuana) per commemorare il compleanno di Marcus Garvey (1887- 1940), ritratto nel dipinto, intellettuale e attivista giamaicano per l’emancipazione nera, considerato un profeta della religione rastafari

Radici giamaicane

Che il rastafarianesimo sia radicato in un Paese africano non sorprende. Nato negli anni Trenta in Giamaica su ispirazione delle idee panafricaniste del politico, sindacalista e scrittore giamaicano Marcus Garvey, il movimento Ras Tafari (dove ras significa “capo” e tafari sta per “terribile”) ha per sua natura forti legami con l’Africa: i suoi seguaci considerano Haile Selassie, l’ultimo imperatore dell’Etiopia, sacro e «legittimo sovrano della Terra». In seguito alla sua incoronazione, milioni di persone riconobbero in lui Gesù Cristo nella sua «seconda venuta in maestà, gloria e potenza» o, per lo meno, una manifestazione di Dio in terra come profeticamente annunciato dalle Sacre Scritture, essendo egli diretto discendente di Salomone, della tribù di Giuda: la sua dinastia affonda dunque le sue radici nell’incontro fra il re Salomone e la regina di Saba (un episodio narrato nella Bibbia – nel Primo libro dei Re e nel Secondo libro delle Cronache – e nel Kebra Nagast, “La Gloria dei Re”, antico libro che riveste una certa importanza nella tradizione della Chiesa ortodossa d’Etiopia e a cui i rasta fanno riferimento). Il rastafarianesimo è quindi una religione monoteista che appare legata all’ebraismo e al cristianesimo. La sua dottrina si è diffusa a livello globale con Bob Marley, cantante e attivista giamaicano, profeta della musica reggae.

Segno di fede o di dissolutezza?

In Kenya il movimento ha preso vita con la creazione di due importanti ordini (o Chiese rastafariane): “Le 12 tribù di Israele” e “Bobo Ashanti”. Il primo è stato fondato nel 1986 con l’arrivo, dalla Giamaica a Nairobi, del suo fondatore Vernon Carrington, e ora ha sede a Gikambura (nella Provincia Centrale del Kenya), oltre che nella città di Kikuyu, a circa 20 chilometri da Nairobi. Il gruppo è famoso per aver dato origine a numerose band reggae locali come Roots Connection e Mystic Redemption.

Bobo Ashanti, invece, ufficialmente “Ethiopia Africa Black International Congress”, è stato istituito in Kenya nel 1992 con l’arrivo di tre sacerdoti: Richie, Harry e Rackal, seguaci di Charles Emmanuel Edwards (1915-1994), “Mosè nero” che aveva predicato il ritorno dai Caraibi e dagli Stati Uniti dei discendenti degli schiavi africani nella loro patria d’origine, l’Etiopia. I tre portarono così a Nairobi il loro credo e stabilirono un “tabernacolo” (luogo di culto) a Kayole, prima di trasferirsi in un pezzo di terra a Miang’o, villaggio dove è stata costruita la Chiesa della Salvezza Nera, tuttora attiva.

La Rastafari Society of Kenya, registrata nel 2017, opera principalmente come un organismo ombrello per tutti i gruppi, gli ordini rastafariani del Paese. Oggi l’organizzazione porta avanti la battaglia per legalizzare la cannabis. «Siamo stanchi di essere discriminati», hanno tuonato di recente i suoi rappresentanti in un’accalorata conferenza stampa. «La proibizione dell’uso di marijuana è incostituzionale perché ostile alla nostra pratica religiosa. Siamo certi che la giustizia ci darà ragione. Vogliamo semplicemente essere liberi di fumare e pregare». Nei prossimi mesi si terrà la prima udienza di una querelle legale che ha già diviso l’opinione pubblica. Molti cittadini vorrebbero il mantenimento del divieto di una pratica da tanti considerata “un segno di dissolutezza morale”. I principali leader politici non si sono ancora espressi per calcoli di convenienza dettati dal calendario elettorale. Le elezioni presidenziali sono alle porte e i rasta annunciano manifestazioni per fare pressione sui candidati.

Foto di apertura: Un rasta keniano fuma uno spinello. Il Rastafarianesimo ammette l’uso di marijuana come erba meditativa. In Italia nel 2008 una sentenza della Cassazione ha stabilito che i fedeli di questa religione, se trovati in possesso di una modica quantità di «erba» devono incontrare la comprensione e la tolleranza dei giudici, «nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone»

Questo articolo è uscito sul numero 2/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.

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