Johara, il pop r&b ha origini marocchine

di claudia

Il cuore in Marocco e gli studi in provincia di Milano, Johara racconta come si costruisce l’autostima a vent’anni. E pubblica il quarto singolo con Platinum Label.

Di Mariarosa PorcelliNuoveRadici.world

Se i tuoi genitori si sono conosciuti a un karaoke forse è scritto nelle stelle che il tuo destino sia di fare la cantante. Ride al telefono Johara quando racconta come è andato l’incontro tra sua madre, arrivata in Italia negli anni Novanta dal Marocco, e suo padre, italiano. Lei è nata venti anni fa in provincia di Milano, dove vive tuttora, e il 21 dicembre ha pubblicato il suo quarto singolo del 2021 per l’etichetta Platinum Label, dal titolo Dimmi cosa c’è. Non sopporta la trap e invece ama Mahmood e Malika Ayane (di origine marocchina come lei). Dei suoi testi dice: «Dopo avere scritto tanto in inglese è stato come rompere con un fidanzato: mi sono tagliata i capelli e ho buttato giù la mia prima canzone in italiano».

A scuola di tajine

Anche il suo nome, Johara, che viene dalla parola araba gioiello, ha un suono musicale. L’ha scelto suo padre. Stranamente, dice lei, visto che è la parte italiana della coppia. «I miei si sono separati quando avevo 9 anni e io ho sempre vissuto con mia madre. Mio padre, invece, lo vedevo nei weekend». Verso le sue radici ha fatto un percorso di avvicinamento graduale: «Non parlo arabo purtroppo, ma lo capisco, anche se con mia mamma comunichiamo in francese e italiano. La verità è che nei primi anni duemila in Italia c’era un certo disprezzo per la cultura marocchina e io non volevo apparire come parte di quel mondo. Crescendo ho capito l’importanza delle mie radici e ho sentito che volevo conoscerle meglio».

Da quel momento Johara ha approfittato di ogni occasione in cui sua madre, che viaggia molto all’estero per lavoro, si trovava in Italia per indagare sulla famiglia di origine e sulle tradizioni marocchine, anche quelle religiose. «Ho imparato ha preparare il tajine e a bere il tè, e ho iniziato ad ascoltare la musica tradizionale marocchina, che ha una ritmica bellissima», racconta con aria divertita e al tempo stesso fiera. «Quando sono andata in Marocco avevo circa 12 anni e l’ho girato tanto, arrivando fino alla città di mia mamma, vicino al deserto. So che faceva cinque chilometri a piedi per andare a scuola e io non vedo l’ora di ripercorrere quelle strade».

La musica da cameretta

Ora Johara è al terzo anno della facoltà di Economia. Con la musica, invece, è un’autodidatta: «Io e la musica siamo gemelle, non ricordo un momento preciso della mia vita in cui ho iniziato ad avere questa passione perché è come ci fosse sempre stata. Però sto studiando con la mia manager che mi fa da vocal coach. Non è facile trovare chi vuole migliorarti e non cambiarti». Da totale esordiente, ha chiesto aiuto sui social per registrare una canzone che aveva scritto e, tramite una serie di contatti, è arrivata all’etichetta che la segue adesso, al suo producer Seck e alla manager Emanuela.

Nel 2021 sono usciti quattro singoli, a partire da marzo: Non ci sono piùSensiSguardi e l’ultimo Dimmi cosa c’è, tutti accompagnati da video. «Credo che se sei emergente la gente abbia bisogno di guardarti in faccia. Anche se i video funzionano un po’ meno di prima. Quando non si usavano ancora le piattaforme di streaming YouTube si guardava di più» precisa Johara quando affrontiamo l’argomento della musica in rete. «Con Spotify ho un rapporto di amore e odio per una questione di qualità di ascolto e di assenza di testi, che per me sono fondamentali».

Ci racconta di avere lavorato molto sulla scrittura in italiano, perché quando faceva le canzoni da «cameretta», come le chiama lei, scriveva solo in inglese che però per un pubblico italiano non va bene. E di conseguenza è arrivato anche il lavoro sull’autostima, perché in un un primo momento riascoltarsi in italiano «era un disastro».

L’X Factor di Johara

Nell’estate del 2021, la vita di Johara è stata attraversata dalla parentesi movimentata delle audition di X Factor: «Non era nei miei piani ma mi è stato proposto e non mi sono sentita di rifiutare. Mi hanno chiesto di portare 15 pezzi da preparare in 10 giorni, facevo prove in continuazione e sentivo addosso una pressione fortissima. Quando ho passato le audizioni, sono stata convocata a Roma per tre giorni davvero stremanti, che si sono conclusi con una porta in faccia. L’esperienza è stata senza dubbio interessante, ma purtroppo non sono stata trattata bene. E non ho ricevuto critiche costruttive su cui lavorare, almeno non dai grandi nomi del programma che sono più interessati a fare show».

C’è una tendenza nel business dei talent e nelle etichette musicali, ci spiega, a penalizzare chi non scrive le sue canzoni come se interpretare significasse non essere talentuosi. «Mi fa arrabbiare quando vengono scartati artisti giovani e bravi per questo motivo. Anche interpretare è un’arte».

Il razzismo nella musica

Come vive l’ondata recente di movimenti in lotta per i diritti civili un’artista ventenne di origine straniera? Johara non è tipo da scendere in piazza per protestare ma si considera una clicktivist, una sorta di attivista da tastiera. «Una delle cause a cui sono più legata è quella del razzismo, che vivo sulla mia pelle. Anche se spesso mi sento dire che non sono abbastanza scura per essere coinvolta direttamente». Ma ci dice che da ragazzina si è sentita chiamare scimmia, kebab o anche con “la parola con la enne” «e pure da ragazzi che mi interessavano…» aggiunge con una nota grottesca. Ma sul razzismo del colore della pelle pare in Italia vinca quello legato al genere: «Dal mio punto di vista, vedo molto più razzismo nei confronti degli uomini con la pelle scura: una donna di solito si salva perché è bella».

Foto: Giorgia Tognoli e Caterina Leva

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