I Dogon al di là del mito

di claudia
dogon

di Alberto Salza

Alla scoperta del leggendario popolo del Mali che ha incantato studiosi e turisti occidentali. I Dogon abitano abbarbicati sulla remota Falesia di Bandiagara. Una regione, la loro, un tempo frequentata da antropologi, poi presa d’assalto dai turisti, oggi isolata e sconvolta dalle violenze jihadiste. Un antropologo li rivisita oggi, schivando i luoghi comuni

L’attacco è a piccoli passi, seguiti da un saltello su un piede solo. La maschera sirige, detta Casa-a-più-piani, fa il giro del pubblico. Il ritmo cambia: salti a destra e sinistra. Poi la maschera flette le gambe (in Africa il danzatore è la maschera), inclina il busto e la testa in avanti, verso est. Tocca il suolo con la cima dell’asta – piatta, traforata e dipinta a motivi geometrici – che supera i cinque metri. Arretra strisciandone la cima al suolo, si raddrizza ed esegue gli stessi passi in senso diametralmente opposto. Si inginocchia: con le braccia dietro la schiena, in 4-5 secondi la maschera tocca il suolo davanti a sé, ruota di un semicerchio, tocca dietro (un movimento difficile, che viene facilitato da alcuni assistenti) e ripete il gesto più volte. Infine il ritmo diviene vivace e, con l’asta in orizzontale, la maschera sirige ruota rapidamente su sé stessa sfiorando le teste degli spettatori, che devono abbassarsi. Tramite questa danza dell’axis mundi i Dogon ricreano prima l’orizzonte e poi l’universo, con il coinvolgimento fisico della comunità.

I maestri delle cipolle

Per anni sono stato perseguitato dai Dogon: gli antropologi francesi – e primo fra tutti l’etnologo Marcel Griaule (1898-1956) con il suo Dio d’acqua. Incontri con Ogotemmêli – avevano riportato di una meravigliosa cosmogonia a sistema complesso integrato, evolutasi sulle scarpate della falesia di Bandiagara, una desolazione tra i monti del Mali. Di conseguenza cercammo di capire, di ricordare, di interiorizzare nell’ordine: dèi d’acqua, villaggi antropomorfi, panieri imago mundi, caverne tombali, antenati incestuosi, divinatorie volpi pallide, tessuti di parole, coperte a scacchi di luci e ombre.

La prima volta che cercai di avvicinare i Dogon, negli anni Settanta del secolo scorso, nessun locale sapeva dove fossero. Poi un tipo sulla pista mi illuminò: «I Dogon? Ah sì, gli habbe, i pagani. Grandi coltivatori di cipolle». Normali, ammesso che la parola significhi qualcosa. Probabilmente i cosiddetti Dogon come li conosciamo sono parto del tipico ”effetto dell’informatore”: l’antropologo che li avvicinò si fidò della narrazione della cultura locale da parte di un solo esperto, affascinante e carismatico. E magari era un mago del depistaggio difensivo. Le culture subsahariane incorporano sistemi di conoscenza a proposito di un universo sacro alimentato dalla sinergia di forze individuali, ancestrali, comunitarie, spirituali, naturali e cosmiche, le quali animano la realtà fisica. Per cui la vita dei Dogon si è organizzata ed evoluta attorno al riconoscimento e alla manipolazione di queste forze. La cosa vale ancora oggi? Per tutti?

Scontro generazionale

Tempo fa mi aggiravo per un villaggio dogon. «Hai pestato un luogo sacro!», esclamò Dolò, l’accompagnatore. «Di nuovo?», dissi con un piede sollevato a mezz’aria. Poi mi arrabbiai: ero stufo di offrire capre, in qualità di multe, a un’accolita di anziani malvissuti che si erano autoeletti gestori della loro invisibile geografia totemica. «Fammelo vedere», chiesi maligno. «Non si può», disse Dolò. I Dogon hanno una regola: nascondere sé stessi e le proprie cose; soprattutto riti e altari.

Per oltre trent’anni, sia pur saltuariamente, ho frequentato l’area dogon: non ho mai assistito a una cerimonia collocata nel posto giusto, nel sacro. Grandi simulatori, i Dogon. Forse a causa della loro origine di profughi, in fuga dai colonizzatori islamici. Dopo la “scoperta” dei Dogon da parte del turismo negli anni Ottanta, i giovani hanno giocato al dogon-da-manuale fino a poco tempo fa, seguendo pedissequamente i testi antropologici degli anni Trenta. Un successo, come testimoniato dal tour mondiale del corpo di ballo dogon di Sanga, che ho potuto ammirare a Torino nel 2001. Risi a crepapelle alle smorfie-danza della maschera Scimmia, venendo zittito dagli spettatori ignari del fatto che anche davanti al sacro, in Africa, ci si diverte: i bambini scorrazzano dappertutto, le donne ciarlano e ridono forte, gli uomini trattano affari, i venditori offrono prodotti di ogni sorta, tutti cercano di sbronzarsi; il baccano è il tappeto sonoro necessario alla cerimonia, così come il pubblico è la cassa di risonanza dell’orchestra di tamburi.

Nei tempi del cambiamento, gli anziani dogon si sono limitati a bere birra di miglio e a opporsi a ogni forma di modernità. Oggi il territorio dei Dogon è squassato da guerre, razzie, spedizioni punitive, conflitti di ogni sorta. Gli analisti semplificano in prospettiva distopica: pastori contro agricoltori, cristiani contro islamici. La faccenda è più profonda, in quanto è scontro generazionale. E riguarda gli oggetti sacri, così come le danze e la gestione del loro potere.

Cani della notte

Già nel 1947, nel villaggio di Koumbevel-Nali si dovette procedere legalmente a sedare un conflitto tra «feticisti e musulmani» (sic nel documento ufficiale). I primi erano rappresentati dal vecchio capo e i secondi da giovani con nome dogon e soprannome islamico (così risulta dai documenti coloniali). Citiamo la risoluzione del contendere: «1) I musulmani si impegnano a consegnare ai feticisti una capra per il sacrificio di purificazione del bosco sacro da loro profanato; 2) i feticisti si impegnano a non rinfacciare più ai musulmani il sacrilegio; 3) i musulmani si impegnano a non disturbare in alcun modo la religione degli anziani; 4) i feticisti si impegnano a rispettare l’islam dei loro figli». Si vorrebbe riportare i turisti alle danze dogon, pacificando l’area a quel modo.

Gli analisti, però, non conoscono i “cani della notte”. Nella percezione dei Dogon, il sortilegio deriva dall’intento occasionale di qualcuno (gruppo o individuo) contro qualcun altro, messo in opera tramite azioni malevole da parte di intermediari ambivalenti. La stregoneria, invece, è la vocazione profonda (innata o per iniziazione) che si annida in alcuni individui, forzandoli a far del male. Nel donno so, la lingua più diffusa nell’area dogon (ce ne sono più di dodici), essi sono dogu-né, gli agenti-veleno. Si muovono nel buio, in assoluto segreto. In molti canti, questi operatori del male sono detti “cani della notte”. Tra i Dogon, i cani sono animali sacrificali, come le galline (in Africa occidentale, la medicina più diffusa non è l’aspirina, ma il sangue di pollo). Il cane rappresenta l’ambiguità dello stregone: è domestico ed educato tra gli esseri umani, ma di notte caccia nella boscaglia e viene in contatto con cose che le persone non possono neppure percepire.

Tra i Dogon, il cane è significativamente associato ai cacciatori, una categoria che sfugge agli analisti dei conflitti saheliani, ma che qui ha il grande privilegio della prima iniziazione. I cacciatori intrattengono relazioni con la notte e i luoghi selvaggi; si muovono dalla cultura alla natura e ritorno.

Turismo antropologico

A quanto risulta, oggi le associazioni dei cacciatori dogon sono i principali attori nei conflitti locali. «Abbiamo il potere di uccidere e l’abilità di proteggerci dal rinculo dell’energia vitale che si avverte nella morte violenta», mi spiegò uno di loro. Sono l’esercito del male, nati con i denti aguzzi da cannibale, capaci di volare e dotati di una panoplia di oggetti sacri (joo) in ferro, rame e pietra, avatar materiali che seppelliscono qua e là e che ogni persona perbene deve temere e allontanare da sé (io ne ho una serie sparsa per casa).

Già negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, i giovani dogon in via di islamizzazione avevano colto il pericolo insito nella stregoneria della tradizione: avevano così abbracciato il culto del juru. Il juru era una forza che si impossessava dei credenti, permettendo loro di identificare i malfattori stregoneschi tra i cacciatori e di scovarne i malefici oggetti joo, che andavano distrutti. Il movimento scomparve all’improvviso, con la diffusione accelerata dell’islam (che va contro ogni forma di stregoneria) e l’arrivo del turismo antropologico (che favorisce primitivismo e antiche magie). Gli analisti parlano a sproposito di un islam nero, sincretico, impregnato di “animismo”, stregoneria e magia, che si distinguerebbe per il suo carattere pacifico e moderato, e troverebbe espressione nel sufismo.

L’antropologo francese Jean-Loup Amselle in Islams africains: la préférence soufie (cui fare riferimento) smonta tale costruzione strabica: il jihadismo è una realtà dell’area dogon, nonostante la ricostruzione dei tempietti sacri e la vendita degli oggetti-altare per il diletto malsano degli uomini bianchi. L’etimologia della parola “sacro” è nell’accadico. Saqāru significa “invocare”, ma anche “interdire”, e saqru “elevato”. In sostanza, un tempio è un luogo di elevazione, interdetto ai profani e dedicato a invocare una qualche potenza ultraterrena. Come la guerra e la morte, può arrivare come fulmine dal cielo: in un villaggio dogon di montagna sorge un edificio la cui superficie in terra cruda fa da contrasto con le pietre delle case. Pare antropomorfa. «È una moschea. È caduta dal cielo. Una notte. La mattina era lì», mi hanno detto i ragazzini.

Questo articolo è uscito sul numero 1/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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