Coronavirus | Il piccolo Gibuti fa paura

di Marco Trovato

Nel piccolo Stato del Corno d’Africa, Gibuti, l’epidemia da coronavirus sta assumendo proporzioni preoccupanti e il presidente, Ismaïl Omar Guelleh, non riesce a far rispettare le misure di lockdown e distanziamento sociale, nonostante governi con pugno di ferro. La pandemia sta progredendo velocemente e a dimostrarlo sono i numeri: 986 casi ufficialmente registrati su una popolazione che stenta ad arrivare al milione. Gibuti è il Paese dell’Africa orientale ad aver dichiarato il numero più alto di casi da Covid-19, con la più alta prevalenza nel continente: 98,6 casi per 100mila abitanti, secondo le stime del Centro dell’Unione Africana per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc). In due settimane il numero dei casi si è moltiplicato per sette.

La gravità della situazione ha costretto il presidente – al potere dal 1999 – ad alzare i toni e in un discorso alla nazione ha esortato i suoi concittadini a rispettare le misure di confinamento: «Molti dei nostri compatrioti prendono ancora alla leggera questa malattia – ha detto Guelleh – e se non rispetteranno le regole imposte per prevenire il contagio, presto il Paese arriverà alla saturazione e diventerà difficile contrastare la pandemia. La gente continua a circolare, a non osservare le distanze minime, a non isolarsi e a diffondere la malattia», nonostante il governo abbia schierato l’esercito per le strade della capitale.  Controlli, però, che non riguardano i pedoni che possono circolare liberamente. La gente non porta le mascherine, il caldo è insopportabile, e i tassisti continuano a circolare liberamente. E il presidente gibutino ha minacciato misure ancora più stringenti, se i comportamenti della popolazione non cambieranno, fino a «prendere la forma di un coprifuoco».

La situazione rischia, dunque, di andare fuori controllo e a dimostrarlo è il fatto che il comando dell’esercito statunitense – presente a Gibuti con circa 4000 militari – ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria. La direttiva riguarda tutto il personale, compresi i militari, i dipendenti del dipartimento della Difesa e i civili statunitensi nel Camp Lemonnier e nel campo di aviazione di Chabelley gestito dagli americani, oltre a quelli impiegati nel porto. Il comando statunitense, tuttavia, non ha reso noto se tra le forze americane vi siano dei positivi al Covid-19.

Gibuti è uno dei Paesi africani strategici per le potenze internazionali. L’espandersi della pandemia e l’incapacità di porvi rimedio possono avere risvolti internazionali, minando la credibilità del Paese, tanto sono vasti gli interessi che si muovono su questo fazzoletto di terra. Vi è una presenza di svariati eserciti, tutti non africani. Si tratta di uno Stato 13 volte più piccolo dell’Italia, con 974mila abitanti – 560mila dei quali vive nella capitale, Gibuti – con un Indice di sviluppo umano dello 0,476 che lo relega al 172° posto nella classifica mondiale. Molto in basso. Su questo fazzoletto di deserto sono presenti migliaia di soldati. Basi militari di Italia, Cina, Francia, Stati Uniti, Giappone, Arabia Saudita.

Una tale presenza potrebbe far pensare a uno Stato florido, dove la sicurezza alimentare è assicurata, così come una sanità capace di far fronte alle necessità della popolazione. Invece non è così. Un abitante su tre è a rischio sicurezza alimentare. In tutta la regione – il Corno d’Africa –, siccità ricorrenti, scarsità d’acqua e altri shock climatici, non ultima l’invasione di locuste, sono i fattori trainanti di alti livelli di malnutrizione, epidemie, insicurezza alimentare,  e del crescere degli sfollati, che innescano un aumento dei bisogni umanitari in tutta la regione, compreso Gibuti.

 

L’affollamento straniero non porta alcun benefico alla popolazione. E le condizioni metereologiche estreme incidono sulla disponibilità di acqua e sulle condizioni igieniche, aumentando il rischio di epidemie. Questo può spiegare anche il diffondersi così rapido del coronavirus, andando in controtendenza a ciò che spesso si sente dire sul virus, cioè che non sopporterebbe il caldo. Tutto ciò, unito agli alti livelli di povertà e disoccupazione, comporta un livello cronico di insicurezza alimentare per oltre 280mila persone.

Gli interessi stranieri che si accalcano su questo fazzoletto di terra sono tutti proiettati verso l’esterno e non incidono sul benessere di chi ci vive. O, meglio, incidono, e molto, sulle casse di coloro che sono al potere. Basta fare quattro passi nel porto turistico di Gibuti per ammirare decine di yacht pronti a salpare in un mare, con decine di chilometri di barriera corallina, paradiso degli amanti delle immersioni. Ma Gibuti offre, nel suo piccolo, anche risorse turistiche che potrebbero essere sfruttate, come il lago salato Assal che si trova a meno 155 metri sul livello del mare, il punto più basso di tutta l’Africa e il secondo di tutto il pianeta. Ma non sono certo queste cose ad attirare gli eserciti delle potenze mondiali.

Ma quali sono questi interessi? Di sicuro Gibuti è un centro nevralgico per il commercio internazionale. Il 40 per cento dei traffici, infatti, passa proprio di lì, grazie alla sua posizione geografica posta tra lo Stretto di Bab al-Mandab e il Golfo di Aden. Con la loro base militare i cinesi controllano le linee di comunicazione con il mercato europeo, rendendo Gibuti ancor più strategico dopo il lancio della nuova via della seta. Ma non solo. Il greggio sotto il controllo cinese di origine sudanese e nordafricana passa proprio da Bab al-Mandab. Non a caso la Cina ha investito 15 miliardi di dollari per favorire l’espansione del principale porto e delle infrastrutture collegate. L’82 per cento del debito estero è detenuto da Pechino e in caso di inadempienza Gibuti potrebbe cedere ai cinesi il controllo del porto strategico di Doraleh.

La Francia, che rimane presente a Gibuti con circa 1400 uomini – a metà degli anni Novanta del secolo scorso ne contava circa 4000 – ha ceduto il passo agli Stati Uniti. La base della Legione Straniera, Camp Lemonnier, è diventata l’avamposto degli americani e ospita la Task Force Horn of Africa e unità dell’intelligence. Dalla base aerea Chabelley decollano i cacciabombardieri F15E e i droni armati Predator e Reaper, con destinazione Somalia e Medio Oriente. Dopo gli americani sono arrivati anche i giapponesi, che a Gibuti hanno costruito la prima base operativa militare all’estero dopo la Seconda guerra mondiale. Insomma, un groviglio di eserciti e di interessi. Il presidente gibutino Guelleh non può perdere la faccia per una “banale” epidemia di coronavirus.

(Angelo Ravasi)

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