25 Aprile | I partigiani neri della Banda Mario

di Stefania Ragusa

Si chiamava Abbabulgù Abbamagal, ma per i compagni era Carlo, anzi Carletto per via della bassa statura e della corporatura esile. Nella foto in apertura (che appartiene all’Archivio Anpi di San Severino Marche) lo vedete al centro, accovacciato, immediatamente riconoscibile per il colore della pelle. Tra gli africani che facevano parte di questa banda partigiana – al momento unica nella storia della Resistenza italiana, e tra poco capiremo perché – è stato il primo a cadere, il 24 novembre 1943.

Oggi c’è una lapide a ricordarlo, nel cimitero di San Severino Marche. Vi si legge: “Nato ad Addis Abeba, morto sul Monte San Vicino. Etiope partigiano del Battaglione Mario di San Severino Marche. Insieme ad altri uomini e donne provenienti da tutto il mondo, caduto per la libertà d’Italia e d’Europa”.
Nella Banda Mario, così chiamata perché a guidarla c’era Mario Depangher , si parlava una babele di lingue, coesistevano tutte le religioni del Libro e militavano uomini e donne. Una dozzina tra loro provenivano dalle odierne Eritrea, Etiopia, Somalia. Ci sono stati altri casi di partecipazione nera alla nostra Resistenza. Ben documentate sono la vicenda del partigiano-azionista italo-somalo Giorgio Marincola, quella di Alessandro Sinigaglia  figlio di un ebreo e di un’afroamericana e quella del libico Italo Caracul, mascotte della Brigata Garibaldi. Meno informazioni si hanno sull’eritreo Brahame Segai e sul marocchino Joseph Besonces. Altre testimonianze si riferiscono a “singoli” che parteciparono alle lotte partigiane o che a volte – è successo anche questo – scelsero di stare dall’altro lato della barricata (è il caso di un somalo chiamato Blanchette che fece parte della Xª Mas).

Archivio Danili Baldini

Archivio Danili Baldini

Gli africani della Banda Mario costituiscono però un caso unico: perché si mossero in gruppo e nel gruppo c’erano uomini e donne, ascari e civili. La loro vicenda oggi è stata finalmente ricostruita, grazie al lavoro di ricerca di Matteo Petracci, storico con frquentazioni precoci all’Anpi. Ed è stato proprio grazie all’Anpi che si è imbattuto in una fotografia che ritraeva un gruppo di partigiani di stanza nelle Marche e alcuni di questi avevano la pelle nera. La sua curiosità si è accesa ed è cominciata così la ricerca che ha portato alla pubblicazione, pochi mesi fa, del volume Partigiani d’Oltremare (Pacini Editore). Si tratta di un testo che, nella contingenza attuale, va ben al di là del suo mero contenuto storico. «Considero il riemergere di sentimenti xenofobi e razzisti come una minaccia alla pace», scrive non a caso Petracci nella sua introduzione.

Il riferimento è in generale all’Europa e all’Italia, e in particolare a Macerata e alle Marche, dove lui vive e la vicenda è ambientata, e dove a febbraio di due anni fa Luca Traini ha portato a compimento il suo raid razzista. «Sono convinto che la battaglia di contrasto a questa deriva vada combattuta con ogni mezzo». Recuperare tessere di verità e di memoria è il mezzo che ha scelto lui.

La storia dei partigiani neri della Banda Mario comincia poco prima dell’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Il governo fascista, che nel 1938 ha già emanato le leggi razziali, vuole realizzare una grande Mostra dedicata ai Territori d’Oltremare (MTO), per dare lustro alla propria immagine di potenza coloniale e in un certo senso lavare l’onta subita all’esposizione di Parigi del 1931, a cui l’Italia aveva partecipato senza potere però esibire la sua supremazia nel Corno d’Africa. La sede prescelta è Napoli. Nel villaggio coloniale saranno ricostruiti gli habitat ritenuti più tipici dei paesi conquistati ed è richiesta la presenza di sudditi coloniali figuranti, anche loro marcatamente “tipici”. Per allestire lo zoo umano, dal corno d’Africa arriveranno una sessantina di etiopi, somali, eritrei e una cinquantina di agenti coloniali (ascari) incaricati di vigilare su di loro. Come si diceva, le leggi razziali erano già state approvate e bisognava dunque limitare nel modo più assoluto il movimento di questa truppa, per evitare contatti con gli autoctoni che andassero oltre la visione espositiva.

Famiglie dell’Africa Orientale, aprile 1940. ⓒ F. Patellani. Museo di Fotografia Contemporanea

Gli organizzatori avevano pensato proprio a tutto, importando dall’Africa anche due sciarmutte incaricate di rispondere alle necessità sessuali dei maschi senza moglie al seguito. Le donne in questione, come spiega Petracci, non erano al corrente dei progetti fatti su di loro e, una volta sbarcate, cercarono disperatamente di sottrarsi al compito.
Nel corso dell’800 e della prima parte del ‘900 le esposizioni coloniali erano una pratica diffusa in Europa e in nord America. Servivano a presentare al pubblico i risultati della missione civilizzatrice dell’uomo bianco. Gli zoo umani erano stati ricorrenti anche in Italia, sebbene se ne parli pochissimo. Il primo era stato ospitato a Palermo nel 1891 ed era interamente dedicato all’Eritrea.
Conclusa l’esibizione i figuranti avrebbo dovuto rientrare in Africa, ma il 10 giugno, un mese dopo l’apertura della MTO, l’Italia entra in guerra e la mostra viene sospesa. Gli africani rimangono sostanzialmente internati nel villaggio, che non è attrezzato per affrontare l’inverno. Non possono uscire, non possono fare nulla. Soffrono, costano e non producono. L’unica attività loro consentita è… recitare. Anche se c’è la guerra, anzi proprio perché c’è la guerra, la macchina della propaganda fascista non può fermarsi. Ma per celebrare l’espansione coloniale e legittimare le politiche razziali non è più possibile girare in Africa. Lo si fa in italia, fingendo di essere altrove e i sudditi coloniali rivelano in questa occasione la propria utilità.
L’8 aprile del 1943 il gruppo viene trasferito nelle Marche. Precisamente a Treia, in provincia di Macerata, in un edificio nobiliare che sta cadendo a pezzi: Villa Spada. Qui comincia per loro una seconda stagione, tutto sommato meno dura. Sono in 58: sono nati dei bambini ma ci sono stati anche dei morti. Gli ascari sono una quindicina. A differenza di quel che accadeva a Napoli qui ci sono contatti con la gente del luogo: contadini, funzionari delle anagrafe, il personale medico dell’ospedale. Gli africani, seppure scortati sempre dalle guardie, escono ogni tanto. Qualcuno va anche dal barbiere e talvolta si giocano partite di pallone con squadre “miste”. Gli eventi si susseguono. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio c’è la destituzione di Benito Mussolini, l’8 settembre viene firmato l’armistizio. Il 5 ottobre, tre etiopi fuggono da Villa Spada per unirsi a un gruppo di partigiani. Venti giorni dopo sono raggiunti da un altro etiope.
I partigiani sono sforniti di armi. A Villa Spada ce n’è una stanza piena. Con l’aiuto degli etiopi viene organizzata un’azione per impossessarsene. Subito dopo altri africani si uniscono al gruppo. Tra loro il leader della comunità, il somalo Aaden Shire, che aveva avuto un ruolo importante nel cosiddetto incidente di Ual Ual, due donne (una delle due sciarmutte) e, a conferma di come le cose non siano mai solo bianche o solo nere, anche degli ascari. Carletto Abbamagal si unirà qualche giorno dopo. In totale, a scegliere di stare con i partigiani, sono 12 persone.
«Per tutti loro l’ingresso nella resistenza non va letto cone un calcolo utilitaristico. Pur nella cornice data dalla legislazione razziale e le richiamate restrizioni sulla circolazione, fino ad allora somali, eritrei ed etiopi avevano vissuto in una condizione di semilibertà», osserva Petracci. Non avevano insomma la necessità di schierarsi. Non rischiavano la deportazione (come gli ebrei), non erano prigionieri di guerra. Avrebbero potuto aspettare il passaggio degli alleati per tornare a casa. E molti di loro, in particolare quelli che avevano bambini piccoli, in effetti fecero così. Come scrivono Uoldelul Chelati Dirar e Alessandro Volterra: «Unendosi alla Banda Mario essi attraversarono confini politici prima ancora che geografici, rivendicando il diritto ad essere soggetti della storia e di ridefinire radicalmente nozioni di cittadinanza cristallizzate dalla prassi coloniale».

Archivio Giovanna Porcarelli Stroppa

Archivio Giovanna Porcarelli Stroppa

La banda Mario, come si è detto, comprendeva persone di svariate nazionalità: inglesi, scozzesi, jugoslavi, sovietici, polacchi, boemi. In essa coesistevano lingue e mentalità diverse. Era una formazione politicizzata e internazionalista. Gli africani di Villa Spada salutavano col pugno chiuso, come facevano gli jugoslavi. Tenere insieme le differenze fu una grande prova e una grande sfida.
Il primo luglio 1944 la banda entra a San Severino Marche, 24 ore prima dell’arrivo dei Polacchi. Viene issata una bandiera rossa, che poi sarà sostituita precipitosamente dal tricolore su richiesta dell’esercito polacco. Il 26 luglio Villa Spada viene sgomberata. A occuparsi del rimpatrio degli africani saranno gli alleati. Tra la fine del 1945 e la metà del 1946 si compie il rientro dei vivi. Petracci, con ulteriori ricerche, è riescito a scoprire dove si trovassero i resti di Carletto Abbamagal: nel cimitero urbano di san Severino Marche. Ed è grazie a questa scoperta che è stato possibile apporre la lapide.

Ma la vicenda della banda Mario per il nostro storico non è ancora finita. L’ultimo capitolo ha come protagonista una donna somala che per anni aveva fatto ricerche sugli anni trascorsi in Italia dal padre. Un argomento che in famiglia era stato toccato spesso, senza però circostanziarlo mai. E adesso che il padre non c’era più a lei era rimasta la voglia di sapere di più sulla sua “resistenza”. Grazie a internet apprende della ricerca di Petracci e riconosce il padre, Aden Shire, in una delle fotografie. Il 7 dicembre del 2011, dal Regno Unito, Shukri Aden Shire manda una mail. Ottiene così le informazioni che voleva e, a sua volta, ne fornisce altre, inedite, sulla sorte del padre, che rientrato in Somalia si sarebbe impegnato attivamente per la ricostruzione indipendente del suo Paese, diventanto ministro e successivamente vittima della persecuzione di Siad Barre.
Il 25 aprile del 2018  e del 2019 Shukri Aden Shire, la figlia del partigiano, è venuta nelle Marche, per partecipare alle celebrazioni del 74° e del 75° anniversario della liberazione. Quest’anno, a causa del Covid-19, non ci saranno cortei e manifestazioni pubbliche e anche Shukri non ci sarà. È una ragione in più per celebrare raccontando storie come questa e coltivando la memoria e la gratitudine.

(Stefania Ragusa)

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