Tutto crolla, Achebe no

di AFRICA

A cinque anni dalla scomparsa di Chinua Achebe e sessanta dall’uscita del suo capolavoro, la riedizione della sua trilogia ci permette di conoscere o riscoprire un grande padre delle lettere africane.

Cinque anni sono trascorsi dal 22 marzo 2013, quando, ottantaduenne, è passato a miglior vita Albert Chinualumogu “Chinua” Achebe. Vincitore di numerosissimi premi, è unanimemente riconosciuto come un padre fondatore della moderna letteratura africana. Il suo romanzo Le cose crollano, uscito nel 1958, tradotto in 50 lingue e venduto in oltre 10 milioni di copie, è libro di testo in molte scuole del continente. Costituisce il primo volume di una trilogia cui seguiranno Non più tranquilli e La freccia di Dio, che raccontano la transizione incompiuta della Nigeria (o dell’Africa tout court?).

Il crollo

Le cose crollano narra gli effetti coloniali sulla transizione attraverso la figura di Okonkwo, un guerriero igbo che dà lustro al suo villaggio vincendo ogni gara di lotta: nelle grandi occasioni, come al funerale di un notabile del villaggio, beve il vino di palma dal teschio della sua prima vittima. Il suo villaggio, Umuofia, è rispettato da tutti i villaggi della regione. È potente in guerra e magia, e i suoi sacerdoti e stregoni sono temuti in tutto il territorio.

Okonkwo, pur così forte, è dominato dalla paura: della debolezza e del fallimento. In questo contesto si manifesta l’arrivo dei bianchi (quelli con il fucile) e in seguito dei missionari. I capiclan concedono loro una porzione della Foresta Malvagia, dove sono seppelliti i morti di vaiolo e di lebbra. I vecchi sono sicuri che dopo tre o quattro giorni i bianchi se la squaglieranno, ma ciò non avviene. Nasce così la convinzione che il feticcio dell’uomo bianco abbia un potere incredibile. Okonkwo non riconosce più il proprio villaggio, ha uno shock culturale, vive nella nostalgia di un tempo che non torna, crolla perché nel tempo c’è poco tempo.

Non più tranquilli

Sulla stessa traccia il secondo romanzo. Il protagonista si chiama sempre Okonkwo (Obi), ma in questo caso è un giovane a cui i clan di Umuofia pagano gli studi nella terra dei bianchi. Okonkwo scopre così la scrittura e un Paese, l’Inghilterra, dove non fa mai buio («di notte l’elettricità fa luce quanto il sole») ma dove «la nostalgia di casa diventa un vero e proprio dolore fisico». Ritorna e diventa un dirigente della pubblica amministrazione. È l’icona di un cambiamento tanto atteso, la transizione verso uno Stato moderno non influenzato dalla tribù e dalle mazzette. Ma il Paese non è cambiato. Lo Stato ha i caratteri moderni della democrazia, ma è un’istituzione «aliena, e compito di ciascuno è trarne il maggior vantaggio senza finire nei guai». Intanto le città crescono, anche se per gli Igbo continuano ad essere terra straniera dove i loro figli si perdono mentre «i vecchi restano soli al villaggio, un fatto difficile da accettare perché è un po’ come abitare lungo le rive del fiume e doversi lavare le mani con la saliva». Arrivano le automobili, i ristoranti, la ricchezza e le possibilità di nutrire gli appetiti della classe dirigente con “regali” e corpi di donne pronte a concedersi per una borsa di studio in Inghilterra.

Obi ha la forza integerrima della sua cultura, che Achebe individua come chiave della transizione, non si piega alle lusinghe, cerca di essere tutto d’un pezzo, ma viene sopraffatto. Non riesce a superare i tabù igbo, non riesce a far fronte alle troppe spese che lo assillano. Cede alla bustarella e alla fine viene arrestato. E tutti a chiedersi com’è possibile che un giovane di così belle speranze si sia piegato per venti sterline. Si resta nel dramma di chi ha sperato in una Nuova Nigeria – una Nuova Africa? – e poi l’ha vista ripiegarsi su se stessa.

Dove batte la pioggia

La freccia di Dio, appena ripubblicata in italiano, conclude la riflessione. È carico della consapevolezza che non si può più evitare un altro modo di vivere e di pensare. In Achebe, storia, antropologia e letteratura si fondono per raccontare qualcosa che cade: un passaggio, un approdo, ma senza meta. Nei suoi libri c’è tutta la saggezza degli Igbo, la vita del villaggio, il clan, gli antenati, c’è la grande città, e più di tutto la letteratura che ti fa essere lì dove i fatti avvengono. C’è il ruolo dello scrittore, come dice il proverbio: “Un uomo che non sa dire dove la pioggia lo ha colpito, non sa neppure dove il suo corpo si è asciugato”. Lo scrittore deve dire alla gente dove la pioggia ha colpito. Achebe vi è riuscito.

(Fabrizio Floris)

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