Tu da che parte stai?

di claudia

di Giovanni Pigatto

Intervista a Lilian Thuram, ex campione di calcio e attivista contro il razzismo. «Ho scoperto sulla mia pelle il razzismo all’età di nove anni», racconta l’indimenticato fuoriclasse francese, che ha fatto dell’impegno contro le discriminazioni una ragione di vita. «Di fronte all’odio e alla violenza come si fa a rimanere spettatori passivi?»

Lilian Thuram è conosciuto per essere stato un grande calciatore, uno dei più forti difensori della sua generazione. Nella sua lunga carriera ha indossato le maglie di Monaco, Parma (con cui ha vinto una Coppa Uefa), Juventus (due scudetti) e Barcellona. Con la nazionale francese detiene tutt’oggi il record assoluto di presenze (noi italiani ce lo ricordiamo soprattutto per i Mondiali del 1998 e gli Europei del 2000, quando la formazione transalpina eliminò per due volte gli Azzurri).

Fin da quando giocava nei grandi stadi del mondo Thuram ha sposato la causa dell’educazione contro il razzismo facendosi promotore di iniziative e campagne di sensibilizzazione. Un impegno, il suo, che è continuato al termine della professione calcistica ed è anzi cresciuto fuori dai campi da gioco. Oggi Thuram, che ha da poco compiuto i cinquant’anni, vive il suo attivismo con la Fondazione che porta il suo nome. Tiene incontri nelle scuole, interviene in conferenze pubbliche, scrive libri di successo come Le mie stelle nere da Lucy a Barack Obama e Per l’uguaglianza. La sua ultima fatica, Il pensiero bianco, pubblicato – come i precedenti – da Add, nasce dalla sua esperienza personale, dalla voglia di studiare e capire i meccanismi intellettuali invisibili e visibili che tengono in piedi lo schema culturale, politico, economico che per secoli ha oppresso, dominato, sfruttato le persone non bianche. Perché il nostro modo di definirci neri, bianchi, meticci, cattolici, musulmani, ebrei, atei, è frutto di una volontà politica, storica e culturale.

La parola “razza” ha un’origine incerta e controversa: per decenni si è pensato che derivasse dal latino ratio, ragione, da cui “razionale”. Ma il filologo Gianfranco Contini ha confutato questa ipotesi dimostrando che viene piuttosto da haraz, che significa “allevamento di cavalli”. Forse è proprio qui il punto? Aver voluto per secoli spiegare “razionalmente” il concetto di razza, nobilitandolo, mentre non ha base scientifica o biologica?

Quando si parla di “razza” legata al colore della pelle ci si riferisce a una scelta politica consapevole che ha diviso arbitrariamente l’umanità, decretando una gerarchia, costruendo l’idea che la razza bianca è superiore. Ancor oggi sono tanti quelli che pensano che le razze esistano, e che i bianchi siano superiori ai non bianchi. Poi ci sono quelli che accettano di non usare più “razza” e usano per esempio la parola “etnia”. Etnia e razza sono entrambi termini sbagliati, creati ad arte per rifare le categorie di “noi” e “loro”. Ma perché esiste ancora questa volontà di definire gli esseri umani con il colore della pelle?

Quando si è sentito, per la prima volta, “diverso” in quanto nero?

Avevo nove anni, da poco ero arrivato con la mia famiglia in Francia. Mi trovato a scuola, in classe, e dei compagni mi insultarono chiamandomi “sporco nero”. Rimasi sconcertato, non capivo. Tornato a casa raccontai l’episodio a mia mamma, che mi disse: “La gente è razzista e che le cose non cambieranno mai”. Nel mondo si associano cose positive all’essere bianco: i soldi, la ricchezza, l’istruzione, il successo. Per questo è importante capire la storia di queste categorie, perché non si nasce bianchi o neri, ma lo si diventa. Da dove vengono queste categorie? Da una volontà politica – che è al servizio dell’economia – per legittimare lo sfruttamento delle persone non bianche.

Qual è, secondo lei, il furto “storico” più grave che ha commesso il pensiero bianco?

Che la storia è raccontata dal punto di vista dei poteri bianchi, del pensiero bianco. Quando parlo di pensiero bianco, non mi riferisco ai bianchi in generale, ma a quella minoranza che detiene il potere politico ed economico e che si è imposta nella storia con la violenza. All’epoca della tratta era diffuso il pensiero che lo sfruttamento degli africani fosse accettabile, normale. Oggi questo pensiero è cambiato? Il potere dell’informazione è devastante. I maggiori mezzi di comunicazione sono tuttora di proprietà di super-ricchi bianchi che possono raccontare la loro versione dei fatti. Risultato: ci appare normale, e non fa il minimo scandalo, che una minoranza di occidentali detenga l’80% delle ricchezze del mondo. Dobbiamo aprire gli occhi e capire che dietro questo furto c’è un sistema economico e culturale sbagliato. Non sarà venuto il tempo di difendere una politica che vuole ridistribuire la ricchezza?

Dato che razzismo e antirazzismo sono una questione culturale, dovremmo ripartire dai programmi scolastici?

Certo che bisogna iniziare dalla scuola, la scuola è politica. Ma c’è un problema “storico”: il razzismo è una difesa di interessi consolidati, la grande maggioranza dei bianchi sono avvantaggiati, anche se lo negano, e difendono la loro posizione, come gli uomini difendono il loro vantaggio sulle donne. Non possiamo essere ingenui e non capire che l’educazione è frutto di scelte politiche. Tutto parte di lì: bisogna dire ai giovani di fare politica perché solo la politica può cambiare le cose e quindi anche i programmi scolastici.

Ancora oggi assistiamo negli stadi a scene ignobili: offese razziste ai giocatori neri. Cambierà mai?

Bisogna rifiutare e isolare chiunque abbia comportamenti razzisti. Quando avvengono episodi di questo tipo ci vuole il coraggio di dissociarsi apertamente, di condannare senza mezzi termini: il silenzio giustifica indirettamente questi comportamenti vergognosi. Dietro al calcio c’è un sistema economico che mantiene il business, invece di lottare contro una violenza incredibile.

Quando si parla di odio contro i neri si pensa subito agli Stati Uniti e alle lotte per l’uguaglianza, ma è meno conosciuto che anche in Francia c’erano leggi dichiaratamente razziste, come il Codice nero durante la tratta, il Codice dell’indigenato durante la colonizzazione e così via. Quella violenza ha un passato e un presente, e tocca tutti i continenti. Con l’istruzione le cose possono cambiare: in Francia non ci sono più le leggi razziste che erano rimaste in vigore per 250 anni. Però lo Stato oggi accetta che il controllo sia più forte verso i neri che verso i bianchi, e con i neri la polizia usa metodi più violenti.

Inginocchiarsi sul campo prima dell’inizio di una partita, in segno di appoggio alla campagna “Black Lives Matter”, è davvero utile alla causa antirazzista?

Che cosa vuol dire black lives matter? Che le vite dei neri contano. Per lottare contro la violenza, in tutte le forme in cui si manifesta, la prima cosa da fare è denunciarla. Anche un gesto simbolico veicola un messaggio chiaro e inequivocabile: mostra da che parte stai. Se non vuoi inginocchiarti dimostri che non te ne frega niente, e posso capirlo: da secoli la gente accetta le violenze fatte sui neri, come da secoli si accetta la violenza degli uomini sulle donne.

Qual è stata l’esperienza di razzismo più brutta che le è capitato di subire?

Credo che quando subisci il razzismo, la volta più brutta sia la prima, perché te la ricordi per sempre. Non è giusto che un bambino di nove anni si senta insultare per il colore della pelle e che di riflesso pensi di essere lui quello “sbagliato”. Io insisto molto su questo: il problema non è chi subisce il razzismo, sono gli altri il problema.

In Francia, con la sua Fondazione lei lavora sull’educazione contro il razzismo. Che cosa si impara dal passato?

Se viviamo in un mondo che nel tempo è in qualche modo progredito, lo dobbiamo a chi è venuto prima di noi. In tanti dicono che bisogna cambiare, ma non fanno niente. Quando si parla di razzismo, c’è chi afferma di essere neutrale, ma questo non può esistere! Non esiste la neutralità. Se ti consideri neutrale, vuol dire che accetti le cose come stanno, così come sono. Quando giocavo a calcio in tanti mi chiedevano: “Che cosa dobbiamo fare per il razzismo?”; io rispondevo sempre: “Ma perché non lo chiedete ai giocatori bianchi?”.

Ci indigniamo e commuoviamo di fronte alle immagini dei naufragi nel Mediterraneo, lo sfruttamento dei braccianti nelle campagne, le persone ammassate nei centri di accoglienza, i muri e i fili spinati che tengono lontani i profughi. Ben presto la rabbia lascia il posto alla frustrazione, al senso di impotenza…

Arrabbiarsi e indignarsi è già un inizio. Tanti non s’interessano neppure a queste cose, se ne fregano. Ciascuno di noi, in realtà, può contribuire a cambiare le cose. Tornando a interessarsi della politica. Certi leader politici alimentano i pregiudizi e le paure. Altri fanno discorsi opposti. Non sono tutti uguali. Diffidiamo di chi evoca la paura dell’invasione, certa politica gioca su questa violenza mettendoci l’uno contro l’altro. È una trappola in cui non bisogna cadere. Dobbiamo scegliere politici che sostengano la ridistribuzione delle ricchezze, lottino contro lo sfruttamento, lavorino per la solidarietà. In Francia, in Italia, nel mondo.

Questo articolo è uscito sul numero 4/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.

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