Sindika Dokolo, il lato artistico dei Luanda Leaks

di Stefania Ragusa

Sindika Dokolo, di cui stiamo sentendo parlare tanto in queste ore, non è solo il marito ed eventualmente il complice di Isabelle dos Santos, la figlia dell’ex presidente-padrone angolano, al centro dei Luanda Leaks, l’ultima inchiesta coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalism (ICI). Quest’uomo d’affari d’origine congolese oggi è anche il più grande collezionista di arte africana e uno dei suoi mecenati più generosi, nonché una figura di primissimo piano nella battaglia per la restituzione delle opere africane trafugate dal continente.
«L’Africa ha più bisogno di musei che di chiese», è una delle affermazioni ricorrenti di Dokolo, che da anni si batte per rimpatriare oggetti d’arte rubati alle nazioni africane nel corso dei secoli e trovare loro una nuova e più consona collocazione. Si è sempre mosso con determinazione e competenza mediatica. Attraverso interviste, articoli e un sapiente uso dei social ha promosso egregiamente, infatti, la sua immagine di attivista al servizio del patrimonio culturale africano, gentile e appassionato, sempre disponibile a parlare di arte e progetti creativi. A settembre la sua Fondazione aveva acquistato  uno spazio sul tabellone elettronico NASDAQ di Times Square, a New York, per sottolineare gli obiettivi raggiunti nel lavoro di rimpatrio. Riferendone su Instagram, Dokolo ha postato un video  del tabellone, accompagnato dal seguente commento: «#GiveBackOurArt. Rimpatriamo l’arte africana nei musei africani. L’arte africana è la nostra storia, la nostra identità, la nostra dignità. La mia storia non è iniziata nel 1482, la prima volta che un esploratore portoghese ha messo gli occhi su un oggetto del regno del Kongo. Io c’ero anche in precedenza, ero lì da sempre».

Qualche settimana prima, al Centre for Fine Arts Bozar di Bruxelles, veniva inaugurata la mostra IncarNations, presentata come la prima al mondo riunire arte africana contemporanea e tradizionale da un punto di vista afro-centrico e costruita interamente a partire dalla sua collezione privata. Questo impegno e la meticolosità dei suoi interventi hanno permesso a Dokolo di conquistare credibilità e rispetto nel mondo dell’arte. Tanto che di IncarNations, per dire, era stato anche applaudito co-curatore.
E il mondo dell’arte, a differenza di quello del business, dove è già partita la corsa a chi prende prima e in modo più netto le distanze da dos Santos e consorte, sembra avere scelto una posizione di attendismo. La dichiarazione ricorrente è: il lavoro fatto da Dokolo con la sua Fondazione è una cosa distinta dagli affari di sua moglie. «Mi rifiuto di urlare con i lupi», ha dichiarato, per esempio, il curatore e critico Simon Njami a Le Monde. «Per quanto ne so, Sindika non era un commerciante di armi o droghe. Per quanto ne so, non ha gestito società nazionali. Per me lui è una figura che ha dato un grandissimo impulso  all’arte in Africa e, fino a nuovo avviso, mantengo tutto il mio rispetto per lui e le sue azioni». Njami, per chi non lo sapesse, è una delle voci più autorevoli nel mondo dell’arte contemporanea africana: fondatore della Revue Noire, ha curato mostre memorabili. Molti altri, tra artisti, galleristi e curatori, si sono espressi in modo similare.  L’establishment artistico sembra orientato a distinguere il profilo del collezionista-attivista da quello dell’uomo d’affari; desidera credere alla narrazione – ormai un po’ incrinata, in verità – secondo cui soldi e interessi del marito sarebbero rimasti separati da quelli della moglie. Dai Luanda Leaks sta emergendo però uno scenario differente: l’attivismo artistico sarebbe stato usato come copertura.
C’è però anche chi,  pur riconoscendo l’importanza della restituzione, dell’espansione della creatività artistica nel continente,  del ripensamento dei musei e quindi delle numerose istanze sollevate da Dokolo in relazione all’heritage africana, ritiene che ci sia una questione non più eludibile che riguarda l’opacissimo rapporto tra soldi sporchi e promozione della cultura.  Se tutte queste (buone) azioni sono state realizzate (come pare) sottraendo montagne di denaro pubblico, ossia danneggiando proprio i potenziali fruitori del rimpatrio artistico e della rinascita culturale, ha senso continuare a esaltare le ricadute sociali della restituzione? Non è che ci troviamo davanti a una clamorosa operazione di artwashing? L’arte africana non rischia di diventare, così, un simbolo vuoto della decolonizazione, un nuovo feticcio?
A sollevare interrogativi come questi sono state, per esempio, Delinda Collier e Marissa Moorman, l’una esperta di arte lusoafricana, l’altra docente di storia africana all’Indiana University Bloomington. Lo hanno fatto in un articolo pubblicato da  Africasacountry, in cui si affronta anche la questione della privatizzazione dell’arte africana in nome di grandi ideali postcoloniali. La loro conclusione è tranchant: «Gli sforzi di rimpatrio di Dokolo e il suo patrocinio di artisti africani, non importa quanto sincero sia stato il suo interesse, ripuliscono la sua immagine rendendo l’arte dipendente da soldi sporchi. Ecco perché il mondo dell’arte e i suoi collaboratori accademici sono così silenziosi. E mentre aumenta la pressione per i musei di tutto il mondo, anche attraverso campagne come #decolonizethisplace, dovremmo iniziare a capire che non è più tempo di retoriche rivoluzionarie finanziate da guadagni illeciti». Le battaglie giuste rischiano di implodere se gli attori che le portano avanti e i mezzi usati mancano di onestà.

(Stefania Ragusa)

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