Riprendiamoci il mare

di claudia

In Senegal c’è chi si oppone al saccheggio delle acque territoriali da parte dei pescherecci stranieri. Il mare dell’Africa Occidentale è affollato da navi industriali (soprattutto turche, cinesi, giapponesi e russe) che prelevano tonnellate di pesce e danneggiano l’ecosistema marino, contribuendo a svuotare le reti dei piccoli pescatori. In gioco c’è il sostentamento di circa 40 milioni di persone. E la pandemia da coronavirus non ha fatto che peggiorare la situazione.

di Stefania Ragusa – foto di Christian Bobst

«C’è stata un’epoca in cui le rastrelliere sembravano non bastare mai, tanto il mare riusciva a darci. Il pesce che non si portava al mercato o a casa per la famiglia veniva messo a seccare e conservato per essere venduto e consumato dopo e altrove: yaboy (sarde), yoss (alice), sippax (gamberetti), e anche kong (un pesce gatto marino) e lo yet, un mollusco che abita dentro conchiglie piene di aculei…».

Seynabou Ndoye è una donna lebu di una cinquantina d’anni. Ha la pelle lucente e gli occhi stanchi. I Lebu sono sempre vissuti vicino al mare e grazie al mare. Lei non fa eccezione. Per tutta la vita si è occupata della trasformazione del pesce, pratica artigianale molto antica in Senegal e tradizionalmente riservata alla popolazione femminile, che ha permesso nei decenni di garantire un adeguato apporto proteico a tutta la popolazione. Il pesce essiccato, molto a buon mercato, poteva infatti essere portato agevolmente anche all’interno del Paese, nelle zone distanti dal mare. Ma da qualche anno la materia prima è diventata rara e costosa, e le rastrelliere sono vuote.

I pescatori escono in mare al mattino con le loro piroghe ma, quando rientrano la sera, le reti spesso sono vuote. Colpa delle navi straniere che, con la loro tecnologia industriale e il placet del governo, battono a palmo a palmo il mare senegalese, prelevano tonnellate e tonnellate di pesce danneggiando i fondali e l’ecosistema marino. In passato erano giapponesi e russi. In virtù di accordi e scambi di favori recenti, adesso sono soprattutto turchi e cinesi. E la pandemia da coronavirus non ha fatto che peggiorare la situazione.

Acque libere alle multinazionali

Poco dopo l’avvio del confinamento, il presidente Macky Sall ha disposto un’imponente distribuzione di derrate alimentari, la più grande realizzata nel Paese dall’indipendenza a oggi. Centomila tonnellate di riso, olio, zucchero e altri alimenti base sono stati consegnati a circa 8 milioni di famiglie. Nello stesso periodo è stato però lasciato campo libero ai grandi pescherecci stranieri e alle multinazionali dedite alla produzione di farina di pesce. Questi hanno fatto il loro business sottraendo ai senegalesi grandi quantitativi di prodotti ittici che avrebbero potuto essere invece nella loro disponibilità.

A lanciare l’accusa è Greenpeace Africa, che ha reso pubblico il rapporto Mal di mare. Mentre il covid chiude l’Africa occidentale, le sue acque rimangono aperte al saccheggio. Secondo lo studio, basato sugli avvistamenti registrati in Senegal, Gambia e Mauritania da marzo a fine luglio 2020, alcune di queste industrie avrebbero tratto notevole vantaggio proprio dalle misure di contenimento. Il governo avrebbe addirittura rilasciato nuove licenze di pesca a turchi e cinesi.

O pesce o farina

Sulla base dei dati del Sistema di identificazione automatica (Ais) utilizzato per le navi di tutto il mondo, Greenpeace ha potuto rilevare che almeno otto pescherecci industriali hanno portato avanti indisturbati la propria attività nel periodo osservato. Avevano tutti il medesimo nome, Fu Yuan Yu, seguito da un diverso numero identificativo, e hanno evidentemente pescato nella Zona economica esclusiva (Zee) senegalese, in assenza di verifiche sulla loro licenza. In altri casi, i pescherecci si sarebbero serviti di un trucco per nascondere la loro posizione e manipolare i dati. Più in dettaglio, quattro navi industriali pescavano in acque senegalesi mentre risultavano essere formalmente in Messico.

Gli stabilimenti che producono farine di pesce destinate all’esportazione, nella quasi totalità di proprietà straniera, hanno continuato la loro attività sottraendo risorse alimentari alla popolazione locale. Per dare un’idea delle proporzioni di questa depredazione, può riuscire utile un esempio concreto. La Key West, adusa a trasportare olio di pesce, ha fatto tre viaggi tra il 1° marzo e il 1° giugno 2020. La sua capacità di carico accertata è di quasi 40 ettolitri. Tradotta in “materia prima”, corrisponde a 70.000 tonnellate di prodotti ittici freschi, l’equivalente del consumo annuale per 2,5 milioni di persone, che in un Paese come il Senegal rappresenta circa un quinto della popolazione.

Il ministero competente, quello della Pesca e dell’Economia Marittima, ha respinto tutte le accuse, dichiarando di avere sempre agito in piena trasparenza, «fornendo chiarimenti e smentite, ove necessario, a tutti gli attori nazionali e all’opinione pubblica internazionale». Una smentita d’ordinanza che in realtà non riesce a far chiarezza.

«In questa emergenza, ciò di cui avevamo bisogno era un reale appoggio per ripulire e disinfettare i nostri siti di lavorazione, non nuove licenze di pesca», osserva Diaba Diop, coordinatrice della “Coalizione senegalese delle donne trasformatrici di pesce contro la farina di pesce”.

A rischio il sostentamento di 40 milioni

A metà ottobre 2020, dopo la pubblicazione del rapporto di Greenpeace, una delegazione di queste donne “trasformatrici” è andata a protestare a Dakar, davanti alla sede del ministero della Pesca. Seynabou Ndoye non era con loro. Ha dei forti dolori alla schiena e non se l’è sentita di affrontare il viaggio fino alla capitale. Le è molto chiaro, però, che solo unendo le forze e le voci si potrà ottenere qualcosa. Forza e voci non solo senegalesi.

Il problema riguarda infatti anche diversi altri Paesi dell’Africa occidentale. In particolare quelli che afferiscono alla cosiddetta Commissione subregionale per la pesca (Csrp), ossia Mauritania, Senegal, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau e Sierra Leone. Nelle aree costiere di tutta la regione, infatti, l’industria della farina e dell’olio di pesce è in piena espansione, e sta portando via tonnellate di pesce fresco dalle tavole delle comunità locali per nutrire pesci come il salmone e la spigola nell’industria dell’acquacoltura, maiali, polli e persino animali domestici in Europa e in Asia.
A essere in gioco sono la sicurezza alimentare e il sostentamento di circa 40 milioni di persone, così come la salute dell’ambiente marino. «L’economia mondiale è in recessione e anche l’Africa Occidentale è investita dal problema. I governi di questa regione devono lavorare insieme per chiudere definitivamente queste fabbriche», afferma Aliou Ba, consigliere politico per la campagna sugli oceani portata avanti da Greenpeace Africa. «Il calo degli stock ittici in Africa occidentale dovrebbe essere gestito meglio e meglio assicurato, per nutrire soprattutto le popolazioni della regione, specialmente in questo periodo di imminente insicurezza alimentare e perdita di biodiversità».

Dello stesso avviso Mor Bengue, attivista di Papas, la sigla che riunisce i pescatori artigianali senegalesi. «Consentire alle fabbriche di farina di pesce il prosieguo delle normali attività durante il contenimento è stato davvero un problema, che ha creato anche una concorrenza sleale tra gli stabilimenti e le donne che lavorano abitualmente nella trasformazione del pesce e che sono state colpite dalle misure di contenimento». Scacciate dalle forze dell’ordine incaricate di disperdere gli assembramenti, le trasformatrici – che costituiscono già in condizioni normali un gruppo poco tutelato – non hanno potuto più procurarsi il pesce né occupare gli spazi per l’essiccazione e la lavorazione.

Dakar timida con Pechino

Fatou Samba è una di queste donne rimaste senza lavoro. Parla in rappresentanza delle colleghe di Khelcom de Bargny, un centro poco fuori Dakar. «Il governo deve impedire alle fabbriche di farina e olio di pesce di acquistare il pesce fresco che serve ai senegalesi per nutrirsi». Dakar però è troppo indebitata con Pechino per potersi permettere di alzare la voce. Osserva Ibrahima Cissé, senior manager della campagna lanciata da Greenpeace: «Il sistema è, ovviamente, coperto da disposizioni e regolamenti tagliati su misura per consentirne la continuità. I grandi perdenti sono le persone. Ma a perdere è anche la politica: i governanti che hanno in mano il destino del Paese sembrano non rendersi conto di essere esposti come le comunità. I vari governi che si sono succeduti diventano consapevoli della loro mancanza di coraggio e di visione una volta che non sono più al potere».

Greenpeace chiede la chiusura definitiva di tutte le fabbriche di farina di pesce e olio di pesce in Africa occidentale, a eccezione di quelle che utilizzano esclusivamente scarti della lavorazione non idonei al consumo umano. L’organizzazione chiede inoltre la pubblicazione dell’elenco completo delle navi autorizzate a pescare nelle aree di competenza Csrp e uno statuto ufficiale che tuteli il lavoro delle donne trasformatrici. I senegalesi vogliono riprendersi il loro mare. Ed è da questi passaggi “formali” che si deve cominciare.

(Stefania Ragusa)

Questo articolo è uscito sul numero 1/2021 della Rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.

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