Razzismo |Anche le vite dei somali bantu contano

di Stefania Ragusa

Mid-Show è una piattaforma social che raccoglie interventi di attiviste somale impegnate nel campo della giustizia sociale. In questi giorni di grande mobilitazione internazionale, in seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd, sulla piattaforma è comparso un video in cui la fondatrice della piattaforma, Najma Fiyasko Finnbogadòttir, si congratula con i tanti somali scesi in piazza per ricordare al mondo che Black Lives Matter. Subito dopo però aggiunge che le black lives dovrebbero contare anche quando appartengono ai somali bantu, che in Somalia sono discriminati da generazioni (difficile datare con esattezza il fenomeno, di sicuro è anteriore al colonialismo italiano). «Noi siamo neri, loro sono neri», dice Najma. «Mi dite dov’è la differenza? Black Lives Matter deve valere anche in Somalia».

«I somali bantu – ricorda la scrittrice Igiaba Scego, che ha condiviso il video sul suo profilo FB e lo ha sinteticamente tradotto in modo da renderlo comprensibile anche ai non somali – sono chiamati dispregiativamente geerer wen e insultati per i loro tratti somatici, in particolare la forma del naso, che li rendono diversi dal fenotipo somalo ricorrente. Questo ad opera anche di personaggi insospettabili. Sono stati anche schiavizzati e veniva loro impedito di sposare persone esterne al loro clan».
Della difficile situazione dei somali bantu si parla poco. Molti di loro oggi sono emigrati negli Usa, e questo spiega come mai una delle rare citazioni letterarie che li riguarda si trovi nel romanzo I ragazzi Burgess della scrittrice americana Elizabeth Strout.

(Stefania Ragusa)

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