Trend | Il vero costo dei vestiti usati

di Stefania Ragusa

In Kenya li chiamano mitumba, in Ghana si usa l’espressione akan obroni wawu, traducibile con “abiti morti dell’uomo bianco”, in Nigeria okirika, mentre nell’Africa francofona è comune il termine friperie. Stiamo parlando dei vestiti usati, gli indumenti di seconda mano che sbarcano massicciamente in tutto il continente.
In Europa si dismettono 2 milioni di tonnellate di prodotti tessili ogni anno. Riferisce Oxfam che Il 70 per cento dei capi donati vengono portati in Africa dove saranno rivenduti nei mercati locali. Gli abiti usati, che provengono anche dagli Usa e dal Giappone, rappresentano un’opportunità e una soluzione conveniente, ma danno luogo anche a una serie di gravi problemi ambientali ed economici. Il primo è lo smaltimento dell’invenduto e anche dell’invendibile. Oggi la qualità delle produzioni tessili è talmente bassa  che la metà dei capi che arrivano in Africa di fatto è da buttare e finisce con l’ingolfare ulteriormente le già ingolfate discariche. Ma da considerare è anche il problema, denunciato dall’Unione Africana, dell’interferenza con l’industria tessile locale, già messa in difficoltà dalle produzioni a basso costo importate dalla Cina. Si tratta di un business da oltre 4 miliardi di euro che pone parecchi problemi.

Textile Mountain. The Hidden burden of our fashion waste  è un film documentario realizzato dal videomaker brasiliano Fellipe Lopes all’interno della campagna Make Europe Sustainable for All  e uscito in questi giorni, che mostra esattamente il lato oscuro della friperie. Gli autori si soffermano sul Kenya, che da solo riceve ogni anno oltre 140mila tonnellate di abiti di seconda mano, e su Dandora, la discarica vicina a Korogocho, che teoricamente avrebbe raggiunto la soglia massima di riempimento nel 2001, ma continua a essere funzionante.
Ogni giorno vengono scaricate qui 2.000 tonnellate di rifiuti indifferenziati sia dai residenti sia dalle attività commerciali della città. È stato calcolato che fino a 6000 persone si guadagnano da vivere raccogliendo rifiuti dalla discarica  e rivendendoli. In questo modo si riesce a generare un reddito per oltre 3000 famiglie.

I rifiuti di Dandora sono spesso altamente inquinanti e includono sostanze chimiche pericolose, scarti ospedalieri, medicinali scaduti, batterie, elettronica, tessuti. Si stima che 20 milioni di kg di rifiuti tessili vengano messi in discarica ogni anno nella sola Nairobi. I problemi di salute sono diffusi tra le migliaia di persone che vivono nelle vicinanze di della discarica. Le malattie respiratorie, dovute alla combustione di rifiuti pericolosi, sono così diffuse che l’ospedale principale di Nairobi ha una propria unità dedicata alla cura dei residenti di Dandora. Ogni giorno, centinaia di bambini passano attraverso la discarica per andare e tornare da scuola. Molti si fermano a rovistare alla ricerca di oggetti di valore, mentre le grandi cicogne marabù, interessate agli scarti di cibo e alle carogne di animali morti,  volteggiano sulle montagne di immondizia.
Dandora, che per la cronaca attorno alla metà degli anni 2000, è stata al centro di due inchieste che hanno coinvolto il nostro ministero dell’Ambiente e la società italiana Eurafrica, che era stata incaricata della bonifica, è un caso clamoroso ma non eccezionale. Il business degli abiti di seconda mano, con i suoi effetti collaterali  insostenibili, interessa tutta l’Africa.  Fa eccezione il Rwanda, che nel 2018 ha messo al bando l’importazione di second-hand clothes, riuscendo a restare fermo sulla posizione, nonostante le pressioni degli Usa e del Regno Unito, cioè le nazioni più coinvolte nel business.

Di fornte a uno scenario come questo si avverte tutta la necessità e l’urgenza di ripensare il sistema moda e la produzione e lo smistamento del tessile. Ripensarlo a  livello globale, per esempio auspicando un serio intervento che contrasti l’obsolescenza programmata dei tessuti (e che secondo vari studi potrebbe essere anche una mossa adatta a una migliore gestione dello scenario post Covid) e ponendo limiti all’export e all’import; e anche a livello locale, sostenendo le iniziative che puntano al recupero e al riciclo dell’usato in un’ottica di economia circolare. Una realtà di questo tipo già attiva in Kenya è Africa Collect Textiles , ma ci sono anche dei brand, considerati emergenti, che hanno costruito il proprio credito sul recupero e la customizzazione dei vestiti usati. È il caso dei blogger Oliver Asike e Velma Rossa, fratello e sorella che hanno dato vita al duo creativo 2ManySiblings.

(Stefania Ragusa)

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