L’età delle sommosse: i giovani africani si ribellano

di claudia

La globalizzazione in Africa ha stimolato la voglia di cambiamento dei giovani che si informano, si organizzano e si mobilitano sfruttando le potenzialità del web e dei social media. Sentimenti di delusione e rivolta animano i ragazzi africani, coinvolti in un ribellismo spontaneo che supera le frontiere. Una presa di responsabilità sociale e politica che fa ben sperare per il futuro del continente

di Mario Giro

Più che l’economia, la globalizzazione ha cambiato la cultura e le mentalità. In Africa ciò significa un forte cambiamento antropologico tra i giovani: mutano gli stili di vita e le abitudini personali, staccandosi da quelle dei più anziani. Si compie così una cesura che diviene anche sentimentale. I sentimenti di delusione e rivolta animano i ragazzi africani che, a differenza dei loro genitori, non sono sprovvisti di informazioni sulla realtà circostante. Hanno in genere studiato, ascoltano i programmi delle emittenti internazionali e utilizzando internet: in Africa uno strumento che è totalmente in mano loro. A ciò si deve aggiungere la telefonia cellulare che ha puntato sul continente nero come nuovo mercato globale. La gioventù africana nel suo complesso è molto collegata con la cultura e i modi di vita globalizzati, attraverso i mezzi di comunicazione sul web e i social media. Internet attuale permette l’interattività: file di giovani si ammassano agli internet point per chattare con sconosciuti di ogni dove e in particolare nel mondo ricco. Ci sono paesi più evoluti, come la Nigeria, dove al posto della radio, è sempre accesa la TV satellitare. E’ notizia di pochi giorni fa che l’imprenditrice nigeriana Mosunmola Abudu, la regina di Nollywood (detta anche la Oprah Winfrey d’Africa) ha stretto un legame commerciale con Netflix che pone l’Africa al centro del mercato video mondiale. Dall’altro lato, tutta questa comunicazione globale non è estranea al montare della rabbia tra i ragazzi, con il conseguente formarsi dei progetti migratori.

L’aspetto più doloroso che riguarda i giovani d’Africa (e in generale del sud del mondo) è quello del traffico di esseri umani e del lavoro minorile. Le vittime ancora minori sono numerosissime, in specie ragazze e bambine. Le mafie locali coinvolte nella tratta (legate a quelle dell’Occidente), fanno profitti di decine di miliardi di dollari l’anno, non lontani da quelli dei narcotrafficanti saheliani. Poi c’è il dramma del lavoro servile: milioni di minori rischiano la vita nelle miniere illegali, come in Congo o nella regione del Sahel. Infine c’è il fenomeno dei servi domestici: minori asserviti, in Kenya, Benin, Costa d’Avorio (come anche ad Haiti, in Brasile, in Pakistan e nel Golfo).

Se la globalizzazione è fonte di ansia per tutti, molto di più lo è per tali giovani, in specie africani. Spesso per loro si tratta di una doppia paura: quella di venir esclusi ma anche quella di essere inclusi forzatamente. In una situazione del genere si può leggere quella che gli esperti chiamano la “geografia della collera”: davanti alle incertezze e allo spaesamento degli adulti, che reagiscono ripiegandosi su di sé, i giovani si ribellano con la fuga o con la rabbia.

L’età delle sommosse

I sociologi hanno definito l’inizio del millennio come “letà delle sommosse”: addirittura si parla di “mondializzazione delle sommosse”, nuovo segno dei tempi, in cui vengono collegati i fatti della primavera araba con le rivolte africane, asiatiche e latinoamericane. Tali rivolte sono composte in prevalenza da giovani che paiono aver ascoltato l’appello a indignarsi di Stéphane Hessel. Il noto pamphlet di quest’ultimo, “Indignez-vous!”, non contiene nulla di realmente nuovo ma ottiene improvvisamente un successo enorme e viene tradotto in numerosissime lingue. Si può anche facilmente leggere sul web. E’ significativo che un ultranovantenne sia in sintonia col disagio dei giovani del mondo: come se i nonni fossero in grado di comunicare coi nipoti meglio di quanto non facciano i padri. Lo si era già notato nella relazione speciale con i giovani dell’anziano Giovanni Paolo II durante le giornate mondiali della gioventù, in specie quella di Roma del 2000. Si è compiuto quasi un salto generazionale: ad ascoltare i giovani restano gli anziani, i nonni, forse perché ispirano più fiducia. E’ una situazione antropologica e sociale comune a tutti i continenti, dove la famiglia atomizzata ormai dovunque, trova lembi di resistenza soltanto nelle generazioni anziane.

L’età delle rivolte è un’epoca di ribellismo spontaneo e autorganizzato che ha preso il posto delle precedenti forme di protesta, inquadrate da sindacati e partiti. Le più note sono certamente -complici i media globali- le rivolte delle banlieues francesi del 2005, le greche nel dicembre 2008, quelle arabe e inglesi del 2011, quelle americane di Ferguson e Baltimora del 2014 e 2015 che giungono fino a noi con il Black Lives Matter, e infine quelle africane che sono addirittura riuscite a scalzare presidenti come quelle del Burkina o del Senegal. Tuttavia se ne trovano ovunque, quasi si fosse inaugurato il periodo della rabbia popolare giovanile, improvvisa, inattesa e -quasi sempre- inascoltata.

Le cause

Manifestazioni di giovani nigeriani contro la corruzione e la violenza della polizia

Le ragioni della collera sono molteplici: nel 2012 in Nepal, Nigeria e Indonesia sono provocate dall’aumento dei prezzi e vengono trattate a torto come una sorta di nuove jacquerie” giovanili senza sbocchi. La sommossa senegalese del 2012 è dovuta ai tagli della corrente elettrica, un fenomeno molto diffuso nel sud del mondo ma che inizia a non essere più tollerato, come in Pakistan dove sono ricorrenti i power riots.

Numerose le rivolte per le condizioni di lavoro: in Cina nel 2010 avvengono nelle fabbriche dell’iPhone ma tra il 2010 e il 2011 ve ne sono in India, Bangladesh, Messico, Bolivia, Cile, Perù, Brasile e Spagna. Di questo tipo ce ne sono meno in Africa, dove ancora la globalizzazione non ha trasferito grandi piattaforme manifatturiere, ma comunque ve ne sono state in Zambia e Ghana. Le più ricorrenti e violente sono avvenute nel Bangladesh, dove a ribellarsi sono addirittura i bambini lavoratori, che hanno avuto il coraggio di affrontare le forze dell’ordine. Ovunque la reazione dei governi è di repressione violenta. Nel 2013 vi è la violenta protesta dei minatori in Sud Africa e altre rivolte di giovani lavoratori in Colombia, Congo, Perù, Cambogia, Vietnam e di nuovo in Bangladesh, dopo il crollo della fabbrica di Rana Plazza, che fa oltre 1000 morti. Sono tutti eventi legati alla delocalizzazione: i luoghi dove si è spostata la produzione di beni, le cosiddette “nuove fabbriche” del mondo, laddove si assembla la gran parte dei beni materiali a basso prezzo…e a condizioni di lavoro assurde, senza diritti.

Poi ci sono le rivolte politiche tra cui molte quelle africane come detto, a cui si può aggiungere le manifestazioni di massa di giugno luglio scorsi in Mali o il movimento nigeriano #ENDSARS contro la violenza della polizia. L’esasperazione si fa sentire e torna un’antica pratica che sembrava scomparsa: il saccheggio. Tra il 2011 e il 2013 ve ne sono stati in Cina, in Nigeria sono ricorrenti, frequenti in Mali o in Africa orientale.

Una protesta oltre le frontiere

I media non seguono con interesse tali eventi, almeno fino a che non appare chiaro il loro impatto come nel caso dei disordini di Taksim a Istanbul o quelli di San Paolo e Rio contro la Presidente Dilma Roussef, scattati dopo l’aumento del biglietto dell’autobus. Come si è visto, nessun continente è immune: troviamo giovani indignados un po’ ovunque, segno che la protesta giovanile si comunica oltre le frontiere.

A seguito della crisi finanziaria globale del 2008 c’era già stato un movimento globale spontaneo di giovani che aveva fatto parlare di sé. Tra questi aveva fatto scuola Occupy Wall Street (nato nel 2011 con lo slogan “siamo il 99%”): una specie di rivolta generale contro la nuova economia globalizzata e iperliberista, valida ovunque. In ciò possiamo notare che anche i giovani africani si scollegano allo spirito giovanile mondiale e ne è pienamente influenzato. L’interconnessione ormai funziona a pieno ritmo, a differenza di ciò che accadde con i Forum sociali mondiali di inizio millennio (quelli di Porto Alegre) che non riuscirono ad  imporsi.

Manifestazioni popolari in Tunisia, dove sono iniziate le Primavere Arabe e dove tutt’oggi i giovani sono in fibrillazione e chiedono riforme e opportunità

Ovviamente le insurrezioni popolari più gravide di conseguenze politiche sono state quelle di Tunisia iniziate nel dicembre 2010 e disseminate per il paese nei primi mesi del 2011, fino alla caduta del regime di Ben Alì. La Primavera dei gelsomini tunisina è presa ad esempio in altri paesi arabi, dove la generazione dei “diplomati-disoccupati” è cresciuta infuriata per la mancanza di prospettive. Il successo tunisino non si ripete, come sappiamo ma la rabbia sì. Il fuoco covava sotto la cenere anche in Africa subsahariana e si può dire che molto di ciò che accadde poi in Africa occidentale, ad esempio, era nato dall’esempio arabo.

La cesura tra generazioni è una separazione denunciata in primo luogo dai giovani stessi: per loro si tratta del “tradimento dei vecchi”. Non sono i più giovani a rifiutare la relazione: sono gli adulti che li hanno abbandonati al loro destino appena le condizioni socio-economiche sono divenute più dure. Per questa ragione l’Africa dei giovani cambia il continente: i legami trasversali tra giovani conducono ad una mondializzazione dei sentimenti e delle motivazioni. Tutti diventano più individualisti mentre la vecchia Africa del villaggio viene risucchiata da un cambio di mentalità in cui trionfa l’iniziativa individuale. Nascono così l’imprenditoria delle armi (coloro che decidono di fare delle armi il loro mestiere), quella dell’emigrazione con tutte le sue filiere transnazionali (che diviene un vero e proprio settore economico), ma anche quella della società civile organizzata che dimostra una dinamicità mai vista e una presa di responsabilità sociale e politica che fa ben sperare nell’Africa del futuro.

(Mario Giro)

In copertina: la foto simbolo della rivoluzione Sudanese scattata da Yasuyoshi Chiba dell’agenzia Afp, che ha vinto l’edizione 2020 del World Press Photo, il più prestigioso premio fotogiornalistico del mondo.

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