Le nostre radici africane

di claudia

In Tanzania, un gruppo di paleontologi italiani prosegue le ricerche delle origini dell’uomo. Situata tra le praterie del Serengeti e il celebre cratere di Ngorongoro, la Gola di Olduvai è una fonte inesauribile di tesori paleoantropologici: agli studiosi rivela da oltre un secolo eccezionali reperti che svelano le fasi cruciali dell’evoluzione umana, dalle prime esplorazioni degli ominidi all’origine di Homo sapiens. Oggi i ricercatori italiani sono tra i protagonisti delle scoperte più sensazionali

di Marco Cherin*

Anno 1911. L’entomologo e neurofisiologo Wilhelm Kattwinkel esplora la natura incontaminata nel nord dell’attuale Tanzania, allora colonia tedesca, alla ricerca di insetti. La leggenda narra che lo straordinario sito della Gola di Olduvai venga scoperto da Kattwinkel – quindi dagli europei – quasi per caso, quando costui, rincorrendo affannosamente una farfalla, cade rovinosamente lungo un dirupo, atterrando su un deposito ricchissimo di fossili. È lo stesso Kattwinkel ad appellare quel luogo “Olduvai”, storpiando il termine Oldupai, che nella lingua masai indica una pianta succulenta dalle foglie lunghe ed eleganti, molto comune in quei luoghi aridi e rocciosi. Due anni più tardi, il giovane paleontologo e vulcanologo tedesco Hans Reck, già famoso per aver diretto gli scavi dei dinosauri di Tendaguru nella Tanzania meridionale, organizza la prima spedizione scientifica a Olduvai.

Passaggio di consegne

Il lavoro di Reck si conclude nel 1914 a Berlino, con una conferenza pubblica nella quale il ricercatore descrive la stratigrafia della Gola e la sua straordinaria ricchezza in fossili, compreso uno scheletro umano pressoché completo. Dopo anni di dispute scientifiche sulla sua datazione, nel 1968 sarà attribuito inequivocabilmente a un umano moderno, Homo sapiens, e datato a “soli” diecimila anni fa. Tuttavia, nonostante la “giovane” età, lo scheletro conserva tutt’oggi un altissimo valore simbolico, essendo la prima di una lunga serie di sensazionali scoperte paleoantropologiche a Olduvai.

La Prima guerra mondiale comporta un inevitabile arresto delle ricerche scientifiche, che riprenderanno dopo il conflitto in un contesto geopolitico del tutto nuovo. L’Africa Orientale Tedesca passa agli inglesi e diviene la Colonia del Tanganika; Hans Reck, prigioniero degli inglesi, viene liberato e torna a lavorare al Museo di Monaco di Baviera. Lì incontra Louis S.B. Leakey. Nato in Kenya e laureato in antropologia e archeologia a Cambridge, Leakey voleva già incontrare Reck perché affascinato dalle sue scoperte. La sua intraprendenza lo porta a Olduvai già negli anni Trenta, dando così ufficialmente inizio all’epopea delle scoperte sull’evoluzione umana da parte della Leakey Family, che prosegue ancora oggi in Kenya con la nipote Louise.

L’epopea dei Leakey

La Gola di Olduvai si rivela da subito una fonte inesauribile di tesori paleoantropologici. La successione di rocce affiorante lungo le pareti della Gola è un “libro stratigrafico” che può essere “sfogliato” con continuità dal basso verso l’alto, restituendo un’idea chiara dell’evoluzione dell’Africa orientale negli ultimi due milioni di anni. Louis Leakey è ossessionato dall’origine dell’uomo in Africa e condivide questa passione con la seconda moglie, l’archeologa Mary Leakey, che lavorerà incessantemente nella Gola per più di trent’anni. Il lavoro dei Leakey porta Olduvai a diventare l’epicentro della paleoantropologia mondiale. Gli antichi strumenti in pietra, perlopiù semplici ciottoli scheggiati, rinvenuti nella parte bassa della successione, vengono descritti per la prima volta come “industria olduvaiana”, un termine in uso ancora oggi a livello globale.

Nel 1959, dopo anni di scavi ininterrotti e migliaia di fossili e strumenti litici rinvenuti, finalmente i Leakey scoprono i primi resti umani, tra cui un cranio attribuito a una forma di australopiteco “robusto” soprannominata Nutcracker man (“uomo schiaccianoci”) a causa dei suoi molari giganteschi. Il ritrovamento di questo teschio – il più completo cranio di ominide scoperto fino a quel momento – apre il vaso di Pandora: nell’arco di pochi anni, i Leakey individuano decine di altri resti umani, tra cui quelli di Homo habilis, il primo rappresentante del nostro genere. Arriva la fama internazionale e, con essa, cospicui finanziamenti.

Louis, intrigato dalla relazione filogenetica tra gli umani moderni e le grandi scimmie antropomorfe, mette in piedi una squadra di giovani e preparatissime primatologhe, le Leakey’s Angels Jane Goodall, Dian Fossey e Birute Galdikas, promuovendo le loro ricerche su scimpanzé in Tanzania, gorilla in Rwanda e oranghi in Indonesia, rispettivamente. Louis Leakey muore a Londra nel 1972, però Mary non si arrende. Nel 1974 decide di trasferirsi da Olduvai a Laetoli, un sito a soli 45 chilometri a sud, dove pochi anni più tardi compie la sua ultima grande scoperta: le impronte fossili di ominidi bipedi più antiche al mondo, attribuite ad Australopithecus afarensis, la stessa specie della famosa Lucy scoperta in Etiopia nello stesso periodo.

Il ruolo dell’Italia

L’eredità dei Leakey è oggi raccolta da numerosi gruppi di scienziati provenienti da tutto il mondo. La stazione di ricerca costruita dai coniugi a Olduvai, il Leakey Camp, è tutt’oggi utilizzata da ricercatori e studenti tanzaniani, statunitensi, sudafricani, spagnoli, inglesi e italiani, tra gli altri. A un secolo dalla scoperta della Gola, nel 2011, il gruppo italiano della Scuola di Paleoantropologia dell’Università di Perugia dà avvio alle proprie attività di ricerca e formazione in Tanzania, in collaborazione con la University of Dar es Salaam. Si tratta della prima presenza italiana in questo sito straordinario, che ha assunto oggi la forma di un progetto di ricerca – Thor, Tanzania Human Origins Research – coinvolgendo, oltre a Perugia e Dar es Salaam, altri tre atenei italiani (La Sapienza di Roma, Pisa e Firenze). Il progetto è riconosciuto e supportato dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale nel novero delle Missioni archeologiche, antropologiche, etnologiche italiane all’estero (direttore Giorgio Manzi, Sapienza Università di Roma). Ogni anno (con una pausa forzata nel 2020 causa pandemia), il gruppo Thor organizza una missione di circa di tre settimane con base al Leakey Camp, cui partecipano docenti, ricercatori e studenti italiani e tanzaniani.

Il progetto scientifico punta alla comprensione di alcune fasi cruciali dell’evoluzione umana, come l’origine della specie Homo sapiens, nel contesto delle trasformazioni ecologiche dell’Africa orientale degli ultimi milioni di anni, attraverso lo studio del patrimonio geologico, paleontologico e archeologico della Tanzania. Alle attività scientifiche si associano quelle di formazione, con lezioni sul campo e laboratori organizzati per gli studenti. Inoltre, prerogative della missione sono anche cooperazione e capacity building, mediante la collaborazione costante con lavoratori locali e l’organizzazione di corsi di formazione ed eventi pubblici per il personale di campo, la comunità masai, i ranger.

Una storia intricata

Olduvai è un luogo unico al mondo, un luogo mitico. Negli ultimi decenni, moltissimi siti paleoantropologici sono stati scoperti in varie parti dell’Africa, grazie ai quali abbiamo oggi un’idea molto più chiara del “cespuglio” dell’evoluzione umana, quell’intricata storia fatta di comparse di nuove specie ed estinzioni, di convivenza tra forme umane diverse e competizione, in un percorso accidentato fatto di prove ed errori, di numerosi “rami morti” nell’ambito di un quadro evolutivo ramificato, come per ogni altro gruppo di organismi soggetto all’evoluzione biologica (in barba alla ridicola e profondamente errata raffigurazione “classica” dell’evoluzione umana, vista come “camminata” graduale da uno pseudo-scimpanzé a Homo sapiens, bello, alto e bianchissimo, passando per presunti “antenati” più o meno scimmieschi). I fossili, gli strumenti litici e altre tracce rinvenuti a Olduvai sono paradigmatici, poiché dimostrano la compresenza di più specie umane negli stessi ecosistemi e contribuiscono a smantellare l’obsoleto paradigma di un’evoluzione lenta, graduale e progressiva a favore di un modello a cespuglio.  In aggiunta, Olduvai si distingue da ogni altro sito africano per l’incredibile contesto naturale in cui è collocata, a cavallo tra due celebri aree protette: il Parco Nazionale del Serengeti a ovest e la Ngorongoro Conservation Area (di cui formalmente fa parte) a est.

Proprio le politiche di conservazione hanno permesso di preservare a Olduvai e nelle zone limitrofe ecosistemi pressoché intatti, che rappresentano per i ricercatori un vero e proprio laboratorio sul campo. Scavando a testa bassa nelle rocce della Gola è possibile trovare tracce degli ambienti del passato, alzando lo sguardo verso l’orizzonte si può invece ammirare il risultato dell’evoluzione di quegli stessi ambienti, in un processo ininterrotto.

Impronte fossilizzate

Seguendo le tracce di Mary Leakey, i ricercatori del gruppo Thor hanno ampliato i propri interessi da Olduvai a Laetoli, compiendo una scoperta straordinaria. A poche decine di metri dal sito con impronte bipedi scavato da Mary, nel 2016 sono state rinvenute nuove impronte fossilizzate, studiate con moderne tecniche di rilievo tridimensionale. I ricercatori italiani hanno dimostrato che le nuove orme e quelle scoperte nel 1978 giacciono esattamente sullo stesso livello stratigrafico e sono quindi attribuibili a un unico gruppo di Australopithecus afarensis in marcia verso nord-ovest. La più antica “passeggiata” bipede della Storia, datata a 3,66 milioni di anni, impressa su un livello di ceneri vulcaniche rese fangose da un acquazzone (gli studiosi hanno rinvenuto addirittura le impronte fossili delle gocce di pioggia!).

Incredibile come tracce così effimere possano essere arrivate fino a noi. Eppure, la paleontologia è proprio questo: la ricerca di ogni tipo possibile di testimonianza della vita del passato all’interno di quello scrigno di informazioni che sono le rocce della crosta terrestre.

Le impronte di Laetoli sono state lasciate da un gruppo di almeno cinque individui, tra cui uno con una statura stimata di ben 165 centimetri, interpretato come maschio, altri due, più piccoli, verosimilmente femmine, e un paio di cuccioli. Una famiglia, dunque, composta forse da un grosso maschio con il suo harem di femmine e i loro piccoli, secondo un modello poligamo simile a quello degli attuali gorilla, poi abbandonato, milioni di anni più tardi, da forme umane più simili alla nostra. Una famiglia in movimento, che rappresenta simbolicamente proprio una delle principali peculiarità umane: la tendenza all’esplorazione, quella che in ecologia chiamiamo “dispersione” e che erroneamente si riporta spesso come “migrazione”. L’uomo e i suoi “cugini” estinti hanno lasciato l’Africa molte volte, in un processo di dispersione in corso da milioni di anni. Una spinta al movimento, alla ricerca di nuovi habitat, di nuove risorse, di nuove opportunità. Questa è la nostra natura, questo vuol dire Essere umano.

* L’autore dell’articolo è coordinatore della Scuola di Paleoantropologia dell’Università di Perugia (www.paleoantropologia.it) e delle attività di ricerca del progetto Thor (Tanzania Human Origins Research)

Questo articolo è uscito sul numero 5/2021 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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