La strage silenziosa dei missionar

di AFRICA
Missionari

Siamo abituati alla conta. Ogni giorno attendiamo le 18 per sapere come il coronavirus ha colpito, infettato e ucciso. Una conta crudele. Dietro quei numeri ci sono volti, storie, nomi e cognomi, speranze, rancori, solidarietà, gioie, tristezze e dolore. Tutti hanno un nome e una dignità. Eppure sono stati sepolti soli, nemmeno un saluto, una carezza che poteva confortare chi è rimasto. Dietro quei numeri, ci accorgiamo, c’è anche chi ha speso tutta la vita per gli altri. Sono andati in giro per il mondo, quello più povero, per spargere il virus del bene. Un paradosso angoscioso. Quei missionari e quelle missionarie che hanno calcato le terre rosse dell’Africa, nei villaggi più sperduti delle foreste o delle savane, sacrificando tutto per il bene di poveri dimenticati da tutti. Quegli uomini che così tanto gli stavano a cuore. Quegli stessi uomini e donne ci hanno lasciato in questo marzo terribile, che non dimenticheremo mai, ma in Italia. Nelle case madri che li hanno accolti, perché anziani, accudendoli e consentendogli il giusto riposo. Quel virus terribile che gira il mondo, non guardando in faccia nessuno, li ha portati via. Ma noi non possiamo dimenticare. Non possiamo permettere che questi uomini e donne devoti ai poveri cadano nell’oblio. Ricordare per non dimenticare. Ricordare per costruire un futuro migliore per tutti, così come hanno fatto loro in lunghi anni di vita. In tanti sono stati presi dal virus, non serve fare la conta.

Sono tanti, troppi. Non serve fare i nomi. Forse occorre ricordare dove hanno trascorso la loro vita: Indonesia, Brasile, Colombia, Burundi, Repubblica democratica del Congo, Sierra Leone… e si potrebbe andare avanti a lungo, perché hanno toccato tutti i continenti, tutti quei Paesi dimenticati, non interessanti, marginali, che poco o nulla possono dare alla crescita di un mondo nuovo. Loro no. Quegli uomini e quelle donne che hanno perso la vita in questo marzo terribile, hanno deciso che la loro vita aveva un senso proprio in quei luoghi dimenticati, dove nessuno va. E dove loro hanno vissuto, curato, confortato, urlato contro l’ingiustizia che schiaccia, rischiando in proprio, ma per un bene superiore che ha il volto della gente che abita quelle savane, quelle foreste, quelle metropoli che marginalizzano. Le missioni non sono il luogo di raccolta di eroi senza tempo che rincorrono avventure improbabili. Sono uomini e donne che hanno a cuore il loro destino e sanno che un mondo migliore non potrà esserci per nessuno finché ci saranno bambini e bambine che non possono sognare, finché ci saranno uomini e donne che non sanno come arrivare a sera, come procurarsi un pasto al giorno per i loro figli, finché ci saranno anziani derubati della loro dignità. Loro sono stati a fianco di questa umanità povera e dignitosa. Hanno condiviso le baracche, il cibo. Tutto.

I ricordi sono vividi. Alcuni di loro li ho incrociati nei numerosi viaggi in Africa. Li ho incontrati nella loro casa a Bukavu, nell’allora Zaire, di ritorno dal Rwanda. Ricordo la sete di sapere, di conoscere, di capire cosa stava succedendo in quel Paese che stava uscendo a fatica dalla terribile mattanza che lo ha colpito nel 1994. In quei lunghi incontri bastava pronunciare la parola “realpolitik” perché si scatenasse la discussione, animata, sostenuta non da pensieri ideologici ma dall’indignazione. Missionari sconcertati, spesso arrabbiati, crucciati per quello che stava succedendo a pochi chilometri da Bukavu. Uomini e donne che non hanno lasciato il Paese nemmeno negli anni terribili che hanno devastato il Paese, con più di 4 milioni di morti. Sono sempre rimasti a fianco. Come dimenticare quella casa di Goma che a ogni scoppio di mortaio o sventagliata di mitra si riempiva di rifugiati di tutte le età. E loro sempre lì. Uomini e donne animati dalla fede, ma che sapevano guardare ai bisogni concreti. Uomini e donne concreti, con piedi ben piantati per terra e con un unico orizzonte: contribuire a riportare dignità in vite dimenticate. Persone a cui importa, davvero, dell’altro. Tutti fragili e disorientati, ma allo stesso tempo importanti e necessari.

Ricordo le giornate trascorse nella casa di Bujumbura, la capitale del Burundi, le chiacchiere a pranzo e a cena. Sono tanti gli incontri che restano indelebili nella memoria. Uomini e donne che mi hanno fatto amare questa Africa. Che hanno dato un senso anche a questo lavoro, il giornalismo. Ma, tra tutti i sentimenti che trattengo nella memoria, c’è il senso di pace che molti di quei volti mi hanno trasmesso, una pace che prende corpo dalla consapevolezza di essere dalla parte dei più poveri. Un’azione che non è mai politica – così come intendiamo noi la politica – ma profondamente consapevole che alla polis appartengono tutti. Non c’è polis finché ci sono gli esclusi. Per quegli uomini e donne tutti gli uomini sono liberi e tutti devono concorrere alla costruzione della polis. Cosà c’è di più politico?

In quella casa di Bujumbura ci sono stato tante volte. Ma una in particolare la ricordo con commozione. In quei giorni ho incontrato padre Marchiol e padre Maule. Due uomini che, nel raccontarti anche le cose più dure, ti trasmettevano quel senso di pace e determinazione propri degli uomini di fede. Quei mesi, siamo nel 1995, tutta la regione dei Grandi Laghi era nel caos, il pericolo era dietro ogni porta. Il regime aveva nel mirino proprio quegli uomini di pace che non facevano politica. La loro azione, tuttavia, era vista come fumo negli occhi, perché aiutavano i più deboli ad aprire gli occhi. Assolutamente vietato. Dopo il nostro incontro tornano nella loro missione a Buyengero, io in Italia. Pochi giorni dopo, il 30 settembre, arriva la notizia: a sera arrivano tre soldati, entrano nella casa della missione, prendono padre Marchiol, padre Maule e Catina Guber, li fanno inginocchiare – pensando di umiliarli – al centro della stanza più grande e li uccidono. Morti in ginocchio, com’erano vissuti.

In questo mese di marzo il virus ha portato via 15 saveriani a Parma e 7 comboniane a Verona. Facciamo in modo che questi morti non cadano nell’oblio, così come non ci si dimentichi del lavoro straordinario che ha dato senso a tutta la loro vita.

(Angelo Ferrari)

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