I gladiatori del Senegal

di claudia

Eventi sportivi, raduni spirituali, riti di passaggi: i combattimenti sono un condensato di emozioni e significati profondi. La lotta tradizionale senegalese ha un’attrattiva che può competere, e avere anzi la meglio, su quella del calcio. Ma sarebbe riduttivo considerarla uno sport come gli altri

di Stefania Ragusa – foto di Christian Bobst

Ogni mattina alle 7, Moussa Diop, che tutti chiamano Serigne Ndiaye 2 e che non passa mai inosservato per via della chioma ossigenata, lascia il popolare quartiere della Medina per raggiungere una palestra coperta che il suo allenatore ha predisposto per lui. Prima del coronavirus avrebbe fatto il suo training in spiaggia. È qui che i cultori della lotta amano allenarsi. Percorrendo la corniche litoranea che lambisce Dakar, lo spettacolo più normale che ci si possa aspettare al tramonto è quello offerto da decine di uomini impegnati a lottare o a fare preparazione atletica. Quelli dotati di una stazza notevole e una tecnica sopraffina sono probabilmente professionisti, come Moussa.

In Senegal la lotta – laamb in wolof – ha una popolarità e una capacità di riempire gli stadi e accendere il tifo superiore addirittura a quella del calcio. La federazione nazionale conta circa 4000 affiliati. Pensare a questa disciplina come a un semplice sport tuttavia sarebbe riduttivo. Non si tratta infatti solo di un gioco o di una manifestazione di agonismo. La lotta, oggi calendarizzata e gestita come una disciplina sportiva, nasce infatti come rito di passaggio, momento sociale, esercizio dell’anima e, probabilmente, molto altro.

Amuleti e benedizioni

Le regole base del combattimento sono semplici. Ci si affronta corpo a corpo, sempre a mani nude e sulla sabbia. Vince chi mette per primo a terra l’avversario. Si parla di atterramento quando si tocca il suolo con la schiena, o l’addome, o due ginocchia e una mano, o due mani e un ginocchio. Gli sfidanti, coperti solo da mutandoni che fanno venire in mente gli antichi ciripà dei neonati e da una sfilza di talismani (gris-gris), entrano nell’arena accompagnati dal canto dei griot e dall’incoraggiamento delle donne e dei bambini. Si attardano in una serie di riti propiziatori e di purificazione come l’aspersione del corpo col latte, la rottura delle calebasse, la liberazione di alcuni volatili, l’esibizione di particolari amuleti. Ricevono quindi la benedizione del proprio marabutto, la guida spirituale.

Tutto questo prende tantissimo tempo. Lo scontro vero e proprio può risolversi invece in pochi, velocissimi istanti. Trenta secondi, lo ricordo come fosse ieri, bastarono a Balla Gaye 2 per mettere a terra Mohamed Ndao, in arte Tyson, il 21 luglio del 2011 in uno stadio Demba Diop straripante e attonito. Tyson è stato e resterà la prima stella mediatica della laamb, re incontrastato di ogni match tra il 1995 e il 2002, l’uomo che ha trasformato un momento tradizionale di intrattenimento in uno show.

Dallo stadio ai villaggi

Per capire la realtà e il presente della lotta è utile mettere a confronto tuttavia quella disputata in città, negli stadi e dai professionisti, e quella dei villaggi. La prima viene combattuta ormai in qualsiasi periodo dell’anno, come avviene per un comune sport, e si è dotata di regole che hanno permesso di ridurre la durata degli incontri. In particolare, ammette la possibilità di colpire l’avversario con i pugni: la cosiddetta lutte avec frappe, responsabile di tanti atterramenti fulminei, in vari casi conclusi al pronto soccorso. Prevede inoltre una separazione netta tra chi fa lo spettacolo e chi lo guarda.

La parte rituale è rimasta, ma è stata trasformata in coreografia e folclore. Il pubblico paga e, soprattutto, scommette: il giro di puntate che accompagna le partite di lotta è molto intenso. In occasione degli incontri importanti, i vip senegalesi fanno a gara per occupare i posti più visibili in tribuna, e i siti d’informazione e i social network dedicano spazi e post al “chi c’era” e al “chi parlava con chi”. I promotori impresari, come i noti fratelli Mbaye di Action 2000 o Gaston Mengue, maneggiano incredibili quantità di denaro e sono a ragione considerati personaggi molto potenti.

Nei villaggi, invece, la lotta è sostanzialmente rimasta ciò che era: un momento di socializzazione e di celebrazione dello spirito e degli antenati. Le partite si svolgono in un’epoca dell’anno definita: dopo il raccolto e prima della stagione delle piogge. I pugni sono banditi, e questo significa che un combattimento può andare avanti anche per ore, mentre tutt’intorno la comunità (e i visitatori accorsi dai villaggi vicini) balla, canta, accompagna l’incontro con le percussioni, partecipa, insomma, in modo attivo. La sfida non assume mai un carattere personale: non è mai, per dire, Pap che si misura con Mor. È sempre un confronto tra spiriti: Pap che si misura con il suo e Mor che fa lo stesso con il proprio. Alla fine, tra perdente e vincitore non rimane astio.

Match femminili

La lotta è in generale interdetta alle donne. Nel 2013, un canale televisivo aveva voluto creare scalpore e sfidare la tradizione organizzando un match femminile allo stadio Demba Diop. «Per tre mesi la gente non ha parlato che di questo, ma le reazioni sono state alla fine molto negative», ricorda Oumar Diarra, reporter del quotidiano Direct Info.

Per Lamine Sow, membro del Comitato nazionale di gestione della lotta (Cng), l’esclusione delle donne dai combattimenti è legata anche al misticismo: «Non possono avvicinarsi ai lottatori durante la loro preparazione, perché questo interferirebbe con l’azione del marabutto». C’è però un’eccezione: tra i Diola della Casamance, praticare la lotta è quasi un obbligo per le donne. «Fa parte della nostra cultura, a differenza del resto del Senegal», spiega Evelyne Diatta, allenatrice della nazionale femminile. Ed è indicativo che in lingua diola esista una parola specifica per riferirsi alla lotta femminile: ekolomodj. Ciononostante, per le ragazze è raro trovare occasioni di competizione o immaginare la ekolomodj come una pratica sportiva. Isabelle Sambou è una delle poche ad avercela fatta. Nove volte campionessa d’Africa, ha partecipato alle Olimpiadi di Londra nel 2012 e a quelle di Rio del 2016.

Nata tra le Piramidi

Ma quali sono le origini della lotta senegalese? In uno splendido volume di qualche anno fa, L’Afrique à poings nus, l’autore, Philippe Bordas, avallava la tesi della sua importazione dall’antico Egitto. Nella necropoli di Beni Hasan sono state trovate, tra le altre cose, pitture e iconografie che rappresentano un tipo di lotta praticamente identico a quello combattuto oggi in Senegal.

Sarebbero stati i Lebou (l’etnia di pescatori radicata a Capo Verde, la penisola su cui è sorta Dakar) ad avere importato la lotta dopo averla appresa dai Nubiani, con cui c’erano stati scambi e contatti. Il primo a postulare l’esistenza di un legame storico tra Senegal ed Egitto e ad argomentare questa ipotesi in ambito di ricerca è stato lo storico Cheikh Anta Diop. Il suo punto di vista è stato fatto proprio da molti intellettuali senegalesi, tra cui l’artista Joe Ouakam, che è una delle fonti sentite da Bordas. Una leggenda sérèr conferma l’ipotesi di una provenienza esterna. Essa dice che a portare la lotta sulla terra furono esseri sovrannaturali, chiamati Kurs, i quali l’avrebbero trasmessa a ragazzi non ancora circoncisi, i cosiddetti Gaynaakh.

Pugni controversi

Il filosofo Souleymane Bachir Diagne ha recentemente messo sotto accusa la lotta con i pugni (avec frappe), liquidandola come un prodotto di importazione coloniale. Questa variante, che come abbiamo visto è quella ormai impostasi in città, è stata lanciata e promossa negli anni Vwnti dal regista francese Maurice Jacquin, che voleva farne un business, e infatti fu il primo a organizzare spettacoli a pagamento.

Di diverso avviso l’antropologa Dominique Chevé, che sta conducendo una ricerca in collaborazione con l’istituto nazionale popolare per ‘educazione popolare e lo sport (Inseps). «La lotta con i pugni era già praticata a Cayor (regno che esistette dal XV al XIX secolo nel nord del Senegal, NdR) e non fu inventata dai coloni». La questione insomma rimane controversa. Nel frattempo crescono i cachet dei lottatori. E i match si fanno sempre più duri.

(Stefania Ragusa – Foto di Christian Bobst)

Questo articolo è uscito sul numero 2/2021 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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