No, il coronavirus non sta preservando la fauna africana

di AFRICA
Elefanti

«Il covid-19 è una benedizione per la fauna: l’assenza dell’uomo ha ritrasformato la natura in un paradiso per gli animali». Quante volte, in questo difficile periodo, abbiamo sentito questa storiella felice nell’illusione di trovare qualcosa di positivo nella pandemia? In realtà questa è, appunto, una favola inventata da chi evidentemente non conosce le vere conseguenze del totale azzeramento del turismo, soprattutto qui in Africa australe, dove questa fonte di reddito è la principale risorsa per chi si occupa della conservazione della fauna. Contrariamente quindi a quanto alcuni ingenuamente pensano, l’era del lockdown ha portato ad un aumento esponenziale del bracconaggio, fenomeno che ha raggiunto livelli estremamente preoccupanti tanto da indurre a forti cambiamenti strategici nella gestione di questo fenomeno. Ma cos’è il bracconaggio? Si tratta della caccia di frodo di specie animali protette o della caccia in aree protette o durante particolari periodi in cui l’attività venatoria è vietata. Insomma, il bracconaggio rappresenta la caccia illegale ma è anche molto di più.

La domanda cinese

In Africa, la forma più nota di bracconaggio è quella che interessa i grandi mammiferi del continente come rinoceronti ed elefanti che, dopo essere stati decimati dall’attività venatoria sportiva (caccia al trofeo) dagli inizi del Novecento fino al 1960, nella seconda metà del secolo sono divenuti oggetto di questa nuova forma di persecuzione venatoria, nota come bracconaggio speculativo, che alimenta il traffico di alcune parti di animale ritenute preziose. I corni del rinoceronte sono richiesti dalla medicina tradizionale cinese che li considera un rimedio contro alcune forme di tumore e un potente rinvigorente della sessualità maschile (proprietà scientificamente smentite), mentre le zanne d’avorio dell’elefante sono richieste dall’industria dell’intaglio dell’Estremo Oriente nella quale la Cina, ancora una volta, gioca il ruolo principale. I bracconieri, cioè gli esecutori materiali del crimine, sono un esercito eterogeneo che va dai semplici sbandati ai professionisti con buona esperienza militare che compiono incursioni armate nelle aree protette, spesso col favore delle tenebre: abbattono le loro prede, asportano le parti preziose e poi abbandonano il campo. Una tecnica di guerriglia ampiamente sperimentata durante le numerose guerre di indipendenza sperimentate nel continente africano durante il secolo scorso.

Le armi del bracconiere

L’arma più utilizzata per questo tipo di incursioni è il fucile d’assalto Kalashnikov AK47, un fucile automatico il cui calibro non è indicato per abbattere animali di grossa taglia (7,62 mm, mentre il minimo calibro raccomandato è 9,2 mm) ed in particolare specie con pelle spessa come elefanti, rinoceronti e altri pachidermi. Quest’arma risulta invece molto efficace nel combattimento tra uomini: le aree naturali e la fauna ospitata sono infatti protette e difese da contingenti di guardie forestali, i ranger, ai quali è affidato il compito di reprimere, anche con la forza, il bracconaggio. Proprio l’utilizzo frequente di questo tipo di armi automatiche ci racconta il livello ormai assunto da questo conflitto. Ma il bracconaggio non è soltanto questo: elefanti e rinoceronti sono l’esempio più iconografico del bracconaggio in Africa, l’immagine che viene trasmessa al mondo e che stimola le coscienze occidentali ed il loro contributo alla causa, ma i tentacoli di questo crimine ambientale sono ben più estesi. Moltissime altre specie sono coinvolte, per esempio il pangolino, un folidota la cui armatura anti-predatoria è formata da scaglie cheratinose altamente richieste dalla medicina tradizionale cinese: questo ha trasformato questa graziosa e pacifica creatura nell’animale più cacciato su pianeta, portando le otto specie presenti sul pianeta (di cui quattro in Africa) sull’orlo dell’estinzione.

Bracconieri per necessità

Ancor più inosservato passa il fenomeno del bracconaggio di sussistenza, ovvero quella forma di caccia di frodo, in aree protette, della selvaggina (antilopi, lepri, procavie…), indotta dalla necessità di trovare fonti di cibo proteiche. Questa forma, sebbene più comprensibile perché indotta dalla necessità di sopravvivenza, non è comunque tollerabile. In primo luogo perché le trappole artigianali che spesso vengono utilizzate – generalmente cappi in filo metallico – non sono selettive e vi cadono vittime molti animali che non rappresentano l’obbiettivo del cacciatore, in quanto non commestibili o troppo grandi per le possibilità del bracconiere, come per esempio licaoni, leopardi, leoni, bufali e talvolta anche elefanti. Questi animali possono perdervi un arto o la stessa vita e, se riescono a fuggire, feriti o menomati divengono un grave pericolo per la comunità. Negli ultimi anni, infine, la caccia illegale alla selvaggina si è trasformata da attività di sussistenza in attività speculativa, in quanto la carne di selvaggina ha stimolato l’attenzione di alcuni agiati consumatori, alimentando il mercato spesso illegale di questo prodotto. In una certa misura, anche la deforestazione può essere considerata una forma di bracconaggio ed in particolari regioni come il parco nazionale dei Monti Virunga il taglio e il commercio illegale di legname pregiato è alla base del numero impressionante di ranger caduti sul campo per mano dei bracconieri.

Un passo avanti

Sebbene la risposta commisurata all’aggressione armata dei bracconieri resti un cardine fondamentale della lotta al bracconaggio, essa da sola non è sufficiente. Come i tentacoli del bracconaggio si estendono ben oltre l’attività di crimine ambientale, degenerando in crimini ben più gravi quali l’omicidio o addirittura l’attacco alla sovranità nazionale, così anche la risposta delle autorità deve includere la lotta ai cartelli internazionali del traffico e l’educazione ed il coinvolgimento delle comunità rurali, che rappresentano il maggior bacino di incubazione del bracconaggio. Il turismo stesso e la sua tutela sono un’importante arma: i turisti rappresentano una presenza passiva di forte disturbo per i bracconieri ed una preziosa fonte di informazioni che opera capillarmente e gratuitamente al servizio delle autorità. Prevenire e reprimere il bracconaggio non è certo un compito facile e richiede energie, risorse e la capacità di guardare fuori dalla scatola ricercando soluzioni sempre nuove e più efficaci, perché come in ogni conflitto è necessario essere sempre un passo avanti al nemico.

(Gianni Bauce, autore dell’articolo, ha affrontato l’argomento nel suo nuovo lavoro “Anti Poaching”, distribuito da Mondadori Store, Amazon e IBS)

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