La grande festa dei Luvale

di claudia

Ogni anno nel mese di agosto, sulle rive dello Zambesi, i Luvale mettono in scena la spettacolare cerimonia del Likumbi lya Mize in un tripudio di maschere e danze festose. Ma quello che un tempo fu un evento solenne che celebrava il potere dei re è oggi un etnoshow. Che tuttavia cimenta l’identità e tiene viva la tradizione

di Alberto Salza – foto di Alfredo Felletti

Nel 1975 entrai in un semiarticolato, tra enormi rotoli di carta da stampa e paccottiglia varia, e vi rimasi rinchiuso per duemila chilometri. Il camion era guidato da due somali: senza smettere di metabolizzare anfetamine dal qāt, mi trasportarono non stop dalla Tanzania fino all’estremo ovest dello Zambia. Del paesaggio intermedio non vidi nulla, tranne la notte di luna piena in cui mi misero di vedetta a difesa dai predoni. Mi diedero un machete dicendomi: «Se vedi mani che cercano di rubare il carico, tagliale». Altri tempi.

Emersi dal camion a Livingstone, sulle Cascate Vittoria. Finii in una sorta di cerimonia, con folla vociante, tamburi a palla, maschere di rafia e tutto il resto. Avete notato, guardando documentari e servizi fotografici, come la vita dell’africano medio appaia fatta di rituali, festini, danze, e mai di duro lavoro e famigliola felice? Fatto sta che il mio racconto non fa eccezione. L’ensemble incontrato a Livingstone traeva da sette tamburi ritmi straordinari per variabilità e orchestrazione; la mascherata danzante era vivace e pittoresca (nel senso che dipingeva gesti colorati nel cielo); la gente si divertiva con partecipazione.

L’ensemble era composto da studenti di liceo che riproponevano il sound della loro gente, i Luvale. Uno dei performer mi disse: «Quella masquerade è danzata dai makishi, caratterizzazioni in grado di impartirci lezioni sulla società: sono i nostri maestri di comunità». Però! Così, utilizzando la formidabile rete di trasporti locali (sovente non mi facevano pagare, in quanto “ospite”), passai per Mungu e Lukulu e arrivai nel territorio luvale a monte del fiume Zambesi, il “luogo della molta acqua”, secondo l’etimologia locale di Yambezi.

Origini leggendarie

I Luvale sono una popolazione a logica incerta: agricoltori “taglia-e-brucia” e allevatori, appartengono a un coacervo di comunità e culture che comprende anche i Lwena, Chokwe, Luchazi e Lunda dell’Angola, assieme ai Kaonde e Mbunda tra Zambia e Namibia. I Luvale sono così poco convinti della propria identità, che la levatrice dà al neonato un nome provvisorio. Se il bebè piange di continuo, si suppone che il nome gli sembri inadeguato alle aspettative di vita: e allora lo si cambia, anche più volte.

Con qualsivoglia nome siano conosciute, le popolazioni dell’area parlano lingue bantu e hanno comune origine dal lago Tanganika; in più, condividono tratti socioculturali luba. Secondo il mito, la dinastia luvale iniziò da Konde Mateti, madre di sei figli. Il secondogenito, Chinyama cha Mukwamayi, fu il primo “re” dei Luvale.

Da lì arriviamo alla cerimoniadel Likumbi lya Mize, il reinsediamento (in senso letterale) del cosiddetto re e, soprattutto, il restyling della sua sede nel sobborgo di Mize (un cespuglio) nella cittadina di Zambezi. Durante la cerimonia, i vari monarchi reintegrano la propria autorità dopo aver chiuso la scuola di iniziazione mukanda per i giovani maschi tra gli otto e i quindici anni. Assieme al wali per le ragazze puberi da preparare al matrimonio (sesso incluso), si tratta del momento top della cultura luvale, quello in cui, tramite la trasformazione dei bambini senza genere in “uomini” e “donne”, la comunità riproduce sé stessa.

Ovviamente, quando arrivai dai Luvale non c’era nessuna cerimonia. Mi dissero che i vari re avevano subito una serie di rovesci politici ed economici, per cui l’intronizzazione avveniva a singhiozzo da tempo, con intervalli anche di più anni. Chiesi di visitare la scuola mukanda, ma mi fu gentilmente fatto notare che mu indica gli esseri animati, mentre kanda significa “isolato”. «È “proibito”», aggiunsero: niente visite agli iniziandi.

Giovani mascherati

A quei tempi, i Luvale avevano iniziato la loro dispersione nella modernità tramite migrazioni, lavoro salariato, economia mista, scuola pubblica. Così tornai a Livingstone per parlare di mukanda con gli studenti-performer. Mi fu spiegato che, nell’area di origine, i ragazzi venivano reclusi per tre mesi nella scuola iniziatica, a partire dall’inizio della stagione secca, circa a maggio. La chiusura, e la conseguente cerimonia Likumbi lya Mize, si hanno tuttora ad agosto, quando le acque sono basse: pragmaticamente «prima che la pioggia faccia partire i lavori nei campi».

Ai nostri occhi, i mukishi sono buffi personaggi mascherati, ma i giovani maschi luvale vedono questi strambi assistenti scolastici come antenati usciti dalla tomba. In effetti, a scopo di segretezza, i performer (esclusivamente uomini) indossano il costume nei cimiteri per celare la propria identità. A ogni iniziando (ndonji, “estraneo al mondo dei vivi”) si assegna un personaggio, di cui prepara maschera e costume, usando corteccia battuta e fibre di varie piante scelte per la loro bianchezza. Il costume completo viene poi colorato, in modo simbolico, di rosso (sangue del circonciso e parentela genetica con i mukishi), nero (morte dell’infanzia) e bianco (purezza e rinascita). A maschere indossate, i danzatori prendono le sembianze di personaggi mitici dotati di poteri sovrannaturali. La scuola, luogo vietato a chiunque fosse donna o incirconciso, doveva essere vicina a un albero specifico e sul lato ovest del villaggio, ma a distanza di voce. Infatti la scuola, altrimenti isolata in modo totale, comunicava attraverso le canzoni della bella Mwanapwebo: le madri degli iniziandi ne erano rassicurate.

Modernità e folclore

Nel 2005, l’Unesco ha dichiarato il Likumbi lya Mize “Patrimonio dell’Eredità Intangibile e Orale dell’Umanità”. Il guaio è che Mwanapwebo è stata sentita cantare di recente al ritmo della rumba congolese, mentre i mukishi si sono esibiti, al suono di chitarre, vestiti di sacchi di plastica o di iuta: verdi, gialli, arancione, fucsia, rosa. Nonostante il recupero dei colori della bandiera zambiana e l’opportuno riciclo del politene, è un affare un po’ troppo pop per i puristi. Dovete però guardare allo Zambia di oggi. Qui le migrazioni interne hanno frantumato le comunità, oggi sempre più promiscue, mentre la deforestazione ha eliminato gli alberi sacri disponibili. Nel frattempo l’urbanizzazione ha portato a densità abitative tali da impedire la segretezza e l’isolamento delle mukanda: in tal caso è lo spazio fisico a essere dirimente, non la cultura.

E poi c’è la politica, ethnoshow per eccellenza. Il cronista-ricercatore Patrick Wele riporta il discorso fatto dal ministro John Mwondela il 31 agosto 1985, che sostituì l’eulogia reale kulifukula. Fu allora che si cristallizzò nello spazio-tempo il cerimoniale dei Luvale, seguendo il tipico metodo della “invenzione della tradizione”: «A nome dell’Associazione Likumbi lya Mize, dichiaro che stanotte si è compiuto il rituale secondo programma, vedi punto 6, comma 2. Cioè: hanno ucciso un bue e posto la carne accanto all’albero sacro; di tanto in tanto hanno sgozzato una capra e posto la carne sotto un secondo albero; hanno benedetto il successore del re; hanno intinto il bracciale del re nel sangue degli animali sacrificati; i capi ne hanno mangiato le carni, differenziando quelle sotto il primo albero dal secondo».

A quanto risulta, dopo una notte insonne il re fece un bagno lustrale per poi venire intronizzato tra il giubilo delle masse che pagaiavano da una riva all’altra dello Zambesi sulle loro piroghe. Il politico proseguì il discorso: «Likumbi lya Mize:imparate a pronunciarlo bene [il pubblico esegue a voce alta]. Così noi promuoviamo: rispetto, onore, musica e danze regali. E vagliamo attentamente la nostra cultura, mantenendo il buono e dimenticando l’inutile. A rimembranza, guardate il simbolo a pagina 20 del programma». Ricordo i versi di una canzone urlata dai liceali di Livingstone: «Dove son passati gli iniziandi, la terra è calda; dove passano i non circoncisi, la terra puzza».

Questo articolo è uscito sul numero 1/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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