«Io, torturata e stuprata in Sud Sudan, ho lottato sola per ottenere giustizia»

di Marco Trovato

«Sono stata picchiata, torturata e violentata da cinque soldati. L’ultimo sembrava fuori di testa, aveva lo sguardo spiritato, probabilmente sotto l’effetto di qualche droga, ha cercato di soffocarmi. È un miracolo che mi sia salvata». È il racconto sconvolgente di Sabrina Prioli, cooperante italiana vittima di uno stupro di guerra in Sud Sudan. L’abbiamo intervistata alla fine di una battaglia legale durata anni. «Ho lottato a lungo da sola, nell’indifferenza delle istituzioni e dei media, per ottenere giustizia: l’ho fatto per me e per tutte le donne costrette a subire in silenzio».

di Mariachiara Boldrini

«Ho sempre lavorato in contesti difficili – racconta Sabrina Prioli, sociologa, cooperante ed esperta in monitoraggio di progetti di sviluppo aquilana – ho sempre ascoltato persone che hanno subito la guerra, ex bambini soldati, donne che hanno vissuto abusi, ho vissuto in Colombia che è un paese in guerra da più di 50 anni… Ma fino a quando non ci capiti non puoi capire cos’è la guerra: le grida che venivano da fuori, i proiettili che entravano dalle finestre, gettarti per terra e sentirti vulnerabile, non poter fare nulla, in balia di qualcosa che non sai controllare. Da donna, sapevo come sarebbe andata a finire. Già quello – dice Sabrina – è stato per me un trauma, ogni minuto era un minuto di morte». Nel Luglio 2016 Sabrina Prioli si trovava in Sud Sudan perché lavorava come consulente per progetti di sviluppo di USAID in un periodo di pacificazione del conflitto civile. Si era resa conto del clima di insicurezza, aveva visto l’aumentare dei posti di blocco tra le strade della capitale sud-sudanese. Aveva chiesto di essere trasferita in un posto più sicuro, più vicino all’aeroporto o di essere evacuata, ma non ha fatto in tempo e si è ritrovata letteralmente in mezzo ad uno scontro a fuoco tra i soldati governativi e i miliziani ribelli.

A poche ore dall’inizio del cessate il fuoco, poco prima che fosse trasferita, le milizie sono entrate da una finestra rotta nel compound in cui alloggiava, certificato dall’ONU come luogo sicuro e a un chilometro e mezzo di distanza dalla sede di UNMISS, la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite. I militari hanno ucciso un giornalista che lavorava per una ong locale, picchiato i cooperanti che si erano nascosti per due giorni dietro l’unica porta blindata dell’edificio e violentato le donne. Dopo aver subito ripetuti abusi sessuali e nonostante il cessate il fuoco, mentre i colleghi maschi cercavano rifugio a Juba, la nostra connazionale è stata abbandonata nell’edificio per un’intera notte. Nel suo primo libro, “Il viaggio della Fenice”, racconta gli orrori di quelle ore, come la solidarietà instauratasi con una collega l’abbia tenuta in vita e aiutata a sopravvivere ai dolori fisici per le lacerazioni del corpo, delle zanzare che accanivano sul suo corpo martoriato e il terrore di un ritorno degli aguzzini. Intervistata dalla Rivista Africa (la videointervista integrale sarà pubblicata settimana prossima) ha ricordato quei momenti terrificanti:«Eravamo rinchiuse dentro un bagno, era buio e avevamo paura che una volta tornati i soldati ci avrebbero ucciso al primo rumore. Nessuno è venuto a salvarci e per questo ho dovuto subire altre due violenze». Un soldato, probabilmente drogato, ha tentato di soffocarla. Si è salvata perché un altro militare gli ha detto di fermarsi e perché la collega, dopo, l’ha aiutata a respirare. «Se fossi stata sola – conclude – tra percosse, violenze, il soffocamento ed il trauma psicologico, probabilmente mi avrebbero uccisa».

Dopo la violenza subita, però, Sabrina è rimasta davvero sola, supportata – in una prima fase – solo dai famigliari. Le istituzioni italiane sono rimaste a lungo assenti, la stampa nazionale non ha parlato dell’accaduto, i commenti sui social nei suoi confronti sono stati sprezzanti. «Mi sono sentita nuovamente violentata – afferma – non solo dai soldati, ma anche dalla pubblica opinione, dalle istituzioni e dalle stesse vittime». Nel 2017 il procedimento giudiziario rischiava di finire in un nulla: «Io avrei voluto che i testimoni raccontassero di quello che avevano visto, invece nessuno si è fatto avanti». Sabrina si fece quindi coraggio e a sue spese fu l’unica a tornare in Sud Sudan per raccontare, faccia a faccia con i suoi torturatori e senza il sostegno dell’organizzazione per cui lavorava, le violenze subite, aprendo così alla possibilità anche per le altre donne di testimoniare. Con un’ammissione di colpa del governo sud-sudanese il processo militare si è concluso nel 2018, con l’approvazione di un risarcimento di 51 vacche per la famiglia del giornalista ucciso, oltre due milioni di dollari per i proprietari del compound per i danni subiti all’immobile e quattromila dollari per vittima di stupro. «Era un risarcimento ridicolo, che non teneva di conto del trauma differente vissuto da una donna vittima di violenza sessuale e da un uomo picchiato» critica Sabrina Prioli.

Sabrina Prioli durante una missione umanitaria

Nessuna delle vittime ha accettato il risarcimento, ma la cooperante italiana è stata l’unica ad aver tentato una negoziazione per ottenere una giusta riparazione. «Quando sono tornata a Juba per testimoniare ho ricevuto l’appoggio logistico dell’ambasciata italiana in Etiopia, ma in un primo momento non ho avuto nessun supporto legale dalle Istituzioni – ci spiega – Ho dovuto pagarmi le spese legali, di viaggio, mediche, nessuno mi ha informato dei miei diritti da donna violentata previsti nella Convenzione di Istanbul, ho fatto una denuncia alla procura della Repubblica perché non sapevo a chi altro appellarmi». Nel 2021, finalmente, le cose cambiano, Sabrina scrive alla Presidenza della Repubblica e si rivolge alla stampa straniera, la parlamentare aquilana Stefania Pezzopane fa un’interrogazione parlamentare e lo Studio Saccucci di Roma riesce a dialogare con la diplomazia italiana, affinché Sabrina sia accompagnata nella sua battaglia da un interlocutore istituzionale. Oggi Sabrina Prioli ha finalmente ottenuto un risarcimento per le violenze sessuali subite a Juba nel 2016. «Non appaga i torti subiti, perché sfinita ho accettato il ribassamento del risarcimento e nessun pagamento potrebbe mai far tornare in vita la Sabrina di prima” puntualizza, ma è sicura che non avrebbe potuto combattere ancora, perché il percorso intrapreso è stato lungo e “con un dispendio psicologico forte, perché la violenza – ci ricorda – non ha mai fine».

Nel suo libro Sabrina Prioli ha scritto: “La violenza sessuale costa meno di un proiettile di kalashnikov, sfigura le donne e distrugge (fisicamente e biologicamente) un intero popolo”. L’esperienza traumatica vissuta in Sud Sudan l’ha cambiata per sempre ma, ci tiene a dirlo, le ha ricordato il privilegio di cui è figlia e l’ha convinta ancora di più a mettersi al servizio delle donne vittime di violenza (n.d.r oggi Sabrina Prioli lavora anche come life coach). «Quello che mi ha spinto a uscire dalle sabbie mobili – ci dice – sono i miei valori di giustizia e solidarietà. Di quando me ne sono andata da Juba mi porto dietro questa immagine: io sull’aereo che scappo e sulla terra ferma una donna sud-sudanese che corre con i figli e un materasso sulla testa. Pensavo a tutto ciò che quella donna avrebbe ancora dovuto subire mentre io me ne andavo. Stavo male e forse nel momento non me ne sono resa conto, ma probabilmente è lì che mi sono ripromessa di combattere, per farmi un po’ portavoce di tutte le donne vittime di violenza in quei luoghi dove le donne non hanno voce», come quelle che – secondo un report delle Nazioni Unite – durante il conflitto civile in Sud Sudan hanno continuato a subire stupri quotidiani, sotto lo sguardo non curante della missione ONU e della comunità internazionale.

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