Il principe della moda

di claudia

Abidjan, Costa d’Avorio. Abbiamo visitato la boutique di Pathé’O, il decano degli stilisti africani. Pathé Ouédraogo, 71 anni – conosciuto come Pathé’O – è uno dei couturier più affermati del continente. Nato in Burkina Faso, è emigrato giovanissimo in Costa d’Avorio, dove ha imparato il mestiere nella bottega di un sarto. Il successo è arrivato con le sue celebri camicie sgargianti indossate da leader come Nelson Mandela. E dalla gente comune

di Céline Camoin

È la vigilia della Festa del Papà, questo sabato mattina del mese di giugno. Nella boutique Pathé’O, in un’umile stradina di Treichville, zona commerciale di Abidjan, c’è già un gran viavai di signore in cerca di un regalo speciale per il proprio padre, marito, zio. «Perché proprio qui da Pathé’O?», chiedo. «Per l’autenticità», mi risponde una cliente mentre tocca e soppesa un capo di leggerissimo cotone bianco. Nella Maison prêt-à-porter, ogni capo è unico e originale: nella misura, nei motivi, nei colori. Non c’è scelta migliore per un regalo di buon gusto a una persona cara.

«Mai fermarsi».

Dopo aver fatto il solito giro mattutino nell’atelier di fronte alla boutique, il signor Ouédraogo, decano degli stilisti africani, entra nel negozio e riceve subito i saluti delle acquirenti presenti. Ricambia con garbo e simpatia. Qualcuna gli chiede una foto assieme e il principe della moda africana si presta al gioco, tra una risposta e l’altra, in una relazione che ha molto di familiare. Si assicura sempre che ognuno trovi il capo desiderato e, se necessario, aggiusta le misure e manda subito in atelier per un ritocco express. Ci vorranno solo pochi minuti.

Nel laboratorio, una trentina di persone, tra chi taglia, chi cuce, chi stira, chi tiene il registro, sono al lavoro su antiche macchine da cucire Singer o Juki un po’ più moderne. Intanto squilla il cellulare di Pathé: è un ordine per un evento, molti pezzi, c’è da contrattare il prezzo. «Qui lo facciamo sempre, è una consuetudine per trovare un accordo ed essere tutti soddisfatti», mi spiega mentre ci sediamo dietro la vetrina a conversare. «Viene qui ogni mattina?», chiedo allo stilista, che sprigiona una grande energia e mostra una bella forma nonostante le 71 primavere. «Sì, mi risponde, ogni giorno. Non bisogna fermarsi mai. È questo il mio lavoro».

Da Mandela a papa Francesco

Proprio quest’anno la casa di colui che viene definito il più eminente ambasciatore della moda africana ha celebrato i 50 anni, e la notorietà del marchio Pathé’O è cresciuta ulteriormente. Allo storico anniversario sono stati dedicati numerosi servizi televisivi e giornalistici. Nell’emporio, rimasto semplice e tradizionale nonostante la celebrità, sono appese in quadro le foto di alte personalità che indossano le sue camicie: l’attuale presidente ivoriano Alassane Ouattara e la first lady, il presidente del Burkina Faso – Paese d’origine dello stilista – Roch Marc Christian Kaboré, il famosissima scatto con Nelson Mandela, quello con il re del Marocco Mohammed VI; e ancora, l’uomo d’affari più ricco d’Africa, Aliko Dangote, il presidente congolese Denis Sassou-Nguesso, il rwandese Paul Kagame e il congolese Félix Tshisekedi, fra gli altri.

Sapendo che vengo da Roma, una delle prime cose che Pathé’O ha piacere di condividere con me è il suo incontro in Vaticano con papa Francesco. Una foto nel negozio-museo che non mi era sfuggita affatto. È del giugno 2019 e coglie l’attimo in cui il creatore di moda africano dona un tessuto al Pontefice. «Ho voluto incontrarlo perché avevo bisogno di capire meglio la religione. Qui nella nostra regione ve ne sono molte, e anche tanti modi di praticarle». Fedele musulmano, Pathé’O ha colto dal Pontefice un concetto importante: anche se le sue voci sono molteplici, l’unicità di Dio non si discute. «Ero stato alla Mecca, un’esperienza magnifica. Ma non mi bastava, volevo capire meglio, per non dubitare della mia religione. Sono musulmano, credo in Dio, Dio e lui solo».

Bracciante

Partito col fratello maggiore dal Burkina Faso nel 1969 in cerca di opportunità, Ainé Pathé Ouédraogo è un adolescente quando arriva in Costa d’Avorio. «A quei tempi, in Africa non si conosceva la parola immigrati. Cambiare Paese era come cambiare “genitori” ma non patria, perché all’arrivo si era ben accolti, non si facevano troppe domande su identità, provenienza, documenti e quant’altro. Una volta giunti in Costa d’Avorio si era considerati ivoriani. Si lavorava, con i soldi guadagnati si ripartiva, poi, finiti i soldi, si tornava». La prima offerta di lavoro ricevuta, assieme al fratello, è stata quella di bracciante. La paga era annua, 36.000 franchi Cfa (oggi sarebbero circa 55 euro), una somma che non bastava per permettere granché. «Abbiamo rifiutato. L’uomo che ci voleva assumere ci ha lasciati con un proverbio: “Pietra smossa non fa muschio”, ovvero, a muoversi troppo non si conclude nulla».

I due vengono assunti da una donna che aveva bisogno di manodopera per piantare patate dolci. «Ci ha detto che se lavoravamo per lei potevamo considerarci a casa nostra. Era così gentile… Ci trattava come suoi figli. Di giorno si lavorava, la sera si mangiava e si dormiva da lei». La loro meta però era Abidjan, capitale economica della Costa d’Avorio, dove viveva uno zio. «Per noi venuti dalla campagna, dai piccoli villaggi, la città era bellissima. La sera era illuminata, eravamo stupiti». Una sera, una vetrina attira la sua attenzione. «C’erano vestiti bellissimi. Era la vetrina del sarto Jean Kablan, molto noto all’epoca: faceva completi per personaggi importanti, ministri, uomini d’affari, presidenti. Trovavo quella vetrina magnifica. Mi ha ispirato a diventare sarto».

Il fratello decide di tornare in campagna e va a lavorare in una piantagione di caucciù naturale. Pathé rimane ad Abidjan per dedicarsi al cucito. Imparare bene il mestiere è stato lungo e impegnativo. «C’è voluta anche tanta forza mentale, perché essere apprendista sarto non era considerata un’attività di pregio, bensì la cosa da fare in mancanza di meglio».

«La moda? Roba da pazzi»

In cinquant’anni, di strada ne ha fatta, e che traguardi… «Se siamo riusciti ad avere una collaborazione con Dior, significa che si è raggiunto davvero un livello mondiale. A quel punto ho capito quale errore fosse non valorizzare la moda. Quanto gli africani si sono sbagliati a non collocarla fra i settori dello sviluppo».

La moda, infatti, non riguarda solo i vestiti, ma anche gli accessori, la pelletteria, i profumi, la bellezza. Sono almeno 120 i mestieri che ruotano attorno al mondo della moda. «Ci vestivamo senza sapere cosa indossavamo, da dove venissero i capi, però spendevamo soldi per vestirci. I giovani di oggi non sono stati orientati a comprare capi africani, fatti da africani. Nemmeno si sa che gli africani siano in grado di creare moda».

Se i genitori si vestono come in Europa, i figli vorranno la stessa cosa, spiega. «È questione di iniziare, di mostrare l’esempio. I dirigenti africani non hanno pensato che la moda poteva essere redditizia, poteva assorbire la disoccupazione. Non si è pensato a inviare i giovani a studiare presso grandi case di moda all’estero». Ancora oggi l’idea di mandare un figlio a studiare moda in Europa non è ben vista. «Roba da pazzi, diranno».

Un’altra difficoltà, fa notare lo stilista, è che la generazione attuale non si rende conto dell’impegno necessario per riuscire una carriera professionale. «I giovani sono assorbiti nel vortice di internet, dei social network, come se la ricchezza dovesse uscire da uno smartphone».

Il cotone del Burkina

La mancanza di visione da parte degli africani, deplora Pathé Ouédraogo, ha portato a un risveglio tardivo. «Adesso che si comincia a capirne il valore, non abbiamo nemmeno il cotone per lavorare. Il nostro cotone, che si coltiva qui nella nostra regione, deve essere esportato grezzo e reimportato semilavorato». A quel punto non è nemmeno più puro al 100 per cento. «La nostra casa è costretta a importare dall’India o dalla Cina. Un paradosso, sapendo che Burkina Faso, Benin, Mali, il nord della Costa d’Avorio sono fra i maggiori produttori di cotone. «Ma non esiste la filiera della trasformazione».

«E lei – chiedo, accennando a tutti i ritratti appesi al muro – come ha fatto a raggiungere tutte queste personalità nella sua carriera?». «La domanda è un’altra – mi risponde Pathé – ed è chiedersi come mai così pochi dirigenti africani indossino abitualmente capi africani. Mancanza di tempo? Consiglieri che li indirizzano altrove? Per un africano dovrebbe essere naturale andare a vestirsi da un altro africano». Cito l’esempio del presidente Kaboré, che veste sempre in tessuto tradizionale faso dan fani. «Già nel 1987 Thomas Sankara, che incontrai poco prima della morte, voleva imporre il cotone faso dan fani ai burkinabè, ma non ci riuscì. A qualcuno non piaceva ricevere ordini su come vestirsi. Kaboré non ha imposto nulla, ma lui ha vestito sempre così. E non ha cambiato quando è diventato presidente. Ovunque vada, in qualsiasi cerimonia, incontrando chicchessia, indossa faso dan fani. E così è stato seguito dalla gente. Non ha forzato nessuno, ma adesso che il meccanismo è avviato si stanno sviluppando iniziative a sostegno della filiera, affinché porti lavoro. In Burkina, in ogni regione c’è una tecnica di tessitura particolare».

Esempio per i giovani

Ora che il fenomeno interessa l’intero Burkina Faso, occorre migliorare la qualità, trovare connessioni, moltiplicare gli attrezzi per la tessitura. La clientela della Maison in realtà è variegata. Dalla gente comune ai personaggi molto benestanti che si fanno fare abiti su misura, diventando di fatto ambasciatori del marchio perché sono loro a viaggiare per tutto il mondo. «La moda in Africa si fa porta a porta – specifica Pathé’O –. Non basta avere un negozio sulla pubblica via e aspettare i clienti. Bisogna andare a cercarli e, quando si lavora bene, è necessario farsi conoscere e riconoscere. Il miglior modo di riuscirvi è far indossare i propri capi alla gente. Spesso la moda africana viene minimizzata. Ma una volta che un cliente è conquistato e convinto, non torna più indietro». 

Piuttosto difficile, secondo lo stilista, è farsi strada nelle fiere della moda in Africa occidentale. «Gli eventi di moda qui non attirano clienti e si finisce per ritrovarsi fra stilisti. Non si è ancora capito che quello che noi creiamo è per gli africani, e che la qualità non è inferiore a quella che si troverà altrove. In Africa ci sono molti talenti, che troppo spesso però crollano davanti alle difficoltà».In occasione del cinquantenario della casa è stata creata la Fondazione Pathé’O, con l’obiettivo di supportare la giovane generazione di creatori attraverso programmi di formazione, tirocini di perfezionamento. Un altro obiettivo è il sostegno all’imprenditoria femminile. La casa Pathé’O ha oggi una quindicina di negozi e punti venditi in franchising in Africa. «E non è finita: bisogna sempre puntare in alto».

Foto di apertura: Marco Longari

Questo articolo è uscito sul numero 6/2021 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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