Il frutto prezioso delle Seychelles

di claudia

Ha una forma inusuale, che ricorda i fianchi di una donna. Contiene il seme più grande del mondo. Cresce solo su due isole. Il coco de mer, con le sue origini e proprietà leggendarie, è richiestissimo in Asia. E il mercato illegale ne minaccia l’estinzione

di Julien Hoareau

Nel Medioevo i marinai che navigavano nell’Oceano Indiano s’imbattevano in strani frutti galleggianti che sembravano affiorare dagli abissi. Nessuno aveva mai visto nulla di simile sulla terraferma. Ritenevano che crescessero in fondo al mare, su qualche sconosciuta pianta acquatica. Per questo li chiamarono “cocco di mare”. Avevano grandi dimensioni e una forma inusuale che ricordava i fianchi di una donna: da un lato s’intravvedeva l’anatomia del pube, dall’altro le natiche.

Presso gli aristocratici europei del XVI secolo i gusci, decorati con pietre preziose, erano oggetto di collezione. Il mistero sulla loro origine diede vita a numerose leggende. Alcuni li ritenevano essere il frutto proibito del giardino dell’Eden, quello di Adamo ed Eva per intenderci. Altri lo pensavano proveniente da una imperscrutabile foresta marina.

Misteriosi e rari 

L’enigma su sciolto solo nel 1768, quando dei navigatori scoprirono la pianta del misterioso frutto sulle spiagge delle Seychelles, arcipelago al largo dell’Africa orientale che proprio l’anno scorso celebrava i 250 anni del primo insediamento sulle isole (creato il 27 agosto 1770 ad opera di 15 coloni francesi e una dozzina di schiavi). I botanici le battezzarono con il nome di Lodoicea maldivica. Oggi sappiamo che questo raro tipo di palma cresce esclusivamente sulle isole di Praslin e Curieuse. Non a caso si trova nello stemma delle Seychelles, la più piccola nazione africana.

Il cocco di mare (Lodoicea maldivica) può avere un diametro di 50 centimetri e pesare fino a 15–22 chilogrammi. Cresce esclusivamente sulle isole di Praslin e Curieuse e richiede 6-7 anni per giungere a maturazione

I suoi frutti hanno dimensioni notevoli (fino a mezzo metro di diametro per un peso che oscilla tra i 15 e i 22 chili) e contengono il seme più grande del regno vegetale. La polpa è commestibile, simile al cocco comune ma meno dolciastra. Viene estratta e lavorata sul posto per produrre liquori, salse, cocktail, creme. Tagliata in fette molto sottili, viene essiccata, confezionata, e infine spedita nel Medio e nell’Estremo Oriente, dove è molto richiesta in relazione ai presunti – e scientificamente mai provati – poteri afrodisiaci e di fecondità.  È tra i pochi prodotti esportati dalle Seychelles, Paese di incantevole bellezza che vive di turismo, costretto a importare il 90 per cento del fabbisogno.

Specie protetta

La scarsa reperibilità del cocco di mare, che richiede 6-7 anni per giungere a maturazione, e la sua crescente richiesta del mercato asiatico hanno fatto lievitare il valore del frutto e con esso la bramosia dei mercanti. Le Seychelles sono impegnate a tutelare questo patrimonio naturale, che dal 2011 è stato inserito nella lista rossa delle specie vegetali a rischio dell’Unione internazionale per la conservazione della natura.

Il commercio è strettamente regolato. Solo quattro società dispongono della licenza per la lavorazione della polpa, che avviene sempre sotto attenta sorveglianza delle autorità. Ogni frutto viene numerato, pesato, registrato prima del taglio. E solo un numero limitato di gusci, svuotati e venduti come souvenir ai turisti, può lasciare il Paese. Il prezzo? L’equivalente di 250 euro, mediamente. Mentre la noce interna, che può pesare anche 10 chilogrammi, può essere venduta fino a 100 euro al chilo. Una piccola fortuna. Che incoraggia il mercato nero, minacciando una specie vegetale a rischio di estinzione.

Le zone dove crescono le palme sono sorvegliate e protette, così come i magazzini dove si lavorano i frutti. Ma qualcosa riesce sempre a sfuggire alle maglie dei controlli. E il commercio illegale del coco de mer è una spina nel fianco del governo. «La salvaguardia del cocco delle Seychelles – tuona il ministro del Turismo Didier Dogley – deve essere considerata una priorità assoluta, come la protezione degli elefanti o dei rinoceronti in altri Paesi africani».

(Julien Hoareau)

Questo articolo è uscito sul numero 6/2020 della rivista. Per acquistare un copia della rivista, clicca qui, o visita l‘e-shop.

Isole in festa

Sospese sulle acque turchesi dell’Oceano Indiano, a nord-est della punta settentrionale del Madagascar, lontano dalle rotte commerciali, le Seychelles sono rimaste a lungo disabitate. Le prime incerte notizie di avvistamento sembrerebbero risalire al 200 a.C. da parte di navigatori malesi. Documenti provano viaggi successivi di navigatori arabi fin dal IX secolo (il nome di una delle isole, Aldabra, è di chiara origine araba).

La scoperta delle Seychelles da parte europea viene generalmente datata al 1502, quando l’ammiraglio portoghese Vasco da Gama, di ritorno dall’India, scorse alcuni affioramenti poi riportati sulla sua mappa col nome di «Sette sorelle». Bisognerà però attendere il 27 agosto 1770 prima che degli europei decidano di stabilirvisi: quel giorno la nave francese Télémaque approdò all’isola di Sainte-Anne e il suo equipaggio (quindici francesi, sei schiavi, cinque indiani e una donna nera) sbarcò per non ripartire più; nel frattempo, certe isole erano già frequentate dai pirati. Fu così fondata la comunità originaria da cui discese, con l’arrivo di nuovi coloni e dopo inizi stentati, la popolazione delle Seychelles. L’anno scorso il più piccolo (444 km2) e meno popoloso (nemmeno centomila abitanti) Paese africano celebrava il 250° anniversario dello sbarco che diede vita alla sua storia. Si sono tenuti festeggiamenti poco scintillanti per via della pandemia che ha costretto a chiudere al turismo, ma molto sentiti e partecipati: sulle isole è radicato il senso di appartenenza a una cultura meticcia che nel corso del tempo ha saputo arricchirsi di mille influenze e sfumature senza perdere la propria identità. La lingua più diffusa, il creolo, è frutto della miscellanea di idiomi europei e africani. I ritmi forsennati della danza moutya ricordano certi balli africani attorno al fuoco cadenzati dai tamburi. Le case color pastello e le verande luminose riecheggiano l’atmosfera coloniale; la cucina locale è un’esplosione di sapori seducenti ispirati dalle tradizioni asiatiche, africane ed europee.

Condividi

Altre letture correlate: