Ambiente| Big Plastic alla conquista del Kenya

di Stefania Ragusa

«Nei suoi negoziati commerciali con gli Stati Uniti d’America, il Kenya non accetterà alcuna proposta che vada contro le leggi ambientali». Il ministro del commercio Betty Maina prova ad arginare la polemica, ma a Nairobi la preoccupazione rimane alta. In particolare tra le associazioni ambientaliste che in questi anni hanno lavorato duro per ridurre l’uso e lo scarto della plastica. Il New York Times, attraverso una lunga e dettagliata inchiesta, ha denunciato infatti le pressioni che l’American Chemistry Council, organismo che riunisce i più grandi produttori di sostanze chimiche e società di combustibili fossili del mondo, starebbe facendo sul governo kenyota per modificare le norme antiplastica emanate in questi anni. E non solo: l’obiettivo di lungo respiro di Big Oil (ma forse in questo caso sarebbe più opportuno parlare di Big Plastic) sarebbe fare del paese –una delle economie più interessanti del continente – una sorta di hub per la fornitura di prodotti plastici made in USA.

Il momento è delicato. Washington e Nairobi sono nel bel mezzo di negoziati commerciali molto importanti, e il presidente keniota, Uhuru Kenyatta, è ansioso di raggiungere un accordo. Avere la riconferma di condizioni facilitate per l’import-export sarebbe molto importante, in particolare nella fase delicata che il paese sta attraversando a causa del Covid-19.

Il Kenya ha messo al bando i sacchetti di plastica nel 2017 e lo scorso anno ha firmato, insieme con altre nazioni,  un accordo globale per fermare l’importazione di rifiuti di plastica, rubricati come pericolosi ai sensi della Convenzione di Basilea, accordo che è stato fortemente osteggiato dall’industria chimica. Ma la situazione nel paese africano era davvero insostenibile. Per dare un’idea: uno studio supportato dalla National Environmental Management Agency (Nema) aveva rilevato che oltre il 50% del bestiame allevato vicino alle aree urbane aveva sacchetti di plastica nello stomaco. A tre anni dalla messa a bando e a uno dall’inasprimento delle pene, il governo ha dchiarato che la circolazione di sacchetti di plastica è stata ridotta dell’80 per cento e oltre. In un momento in cui la proponibilità di questo derivato dal petrolio è ai minimi storici, un cambio di direzione da parte di Nairobi si tradurrebbe nella (ri)apertura del mercato dell’intero continente.

Greenpeace Africa ha lanciato subito una petizione per ricordare al governo l’inderogabilità dell’impegno contro la plastica. «L’American Chemistry Council (ACC) vuole fare del Kenya la sua discarica di rifiuti di seconda mano, e quindi usare il Kenya come porta per il resto dell’Africa. Ora abbiamo l’opportunità di impedire che l’Africa diventi un deserto tossico». Agisci per dire al governo del Kenya di proteggere il progresso dell’Africa dall’inquinamento da plastica, è l’invito dell’organizzazione.

Griffins Ochieng, direttore esecutivo del  Centre for Environment Justice and Development, una ong kenyota che dal 2012 combatte contro vari tipi di inquinamento, bolla come “sconvolgente” la doppiezza dell’ACC: mentre il resto del mondo combatte il cambiamento climatico e cerca di liberare il pianeta dalla plastica, Big Oil pensa solo a contrastare la sua decadenza.

L’ACC, dal canto suo, ha respinto le accuse, definendo “grossolanamente imprecisi” i report su cui si basano l’inchiesta del New York Times e la denuncia di Greenpeace. Ha negato di aver voluto in qualsiasi modo interferire nei negoziati commerciali, ma ha riconosciuto che «l’industria chimica statunitese ha colto con favore l’opportunità di contribuire con la propria conoscenza ed esperienza nel campo del commercio e della plastica al dibattito pubblico sugli accordi in discussione». Attraverso il suo portavoce Ryan Bldwin, ha parlato inoltre di una «una necessità globale di supportare lo sviluppo delle infrastrutture per raccogliere, smistare, riciclare e lavorare la plastica usata, in particolare nei paesi in via di sviluppo come il Kenya».

Nonostante le dichiarazioni del ministro Maina, la partita è ancora tutta aperta. La fuga di notizie e la risonanza che sta avendo l’inchiesta del New York Times hanno permesso però di dare un assetto più equilibrato alle forze in campo e costretto Big Plastic ad una seppure parziale assunzione di responsabilità.

(Stefania Ragusa)

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