Senegal, cosa ci dice la storia di Doudou Faye

di Stefania Ragusa

Il portavoce del Califfo generale dei Murid (una delle più importanti confraternite del paese) ha posto la questione sul piano religioso. «Salire su una piroga per raggiungere l’Europa è qualcosa di molto simile al suicidio e per l’Islam il suicidio è un peccato», ha dichiarato Serigne Bass Abdou alla stampa.

In Senegal, in questo momento, il tema delle partenze “clandestine” sta focalizzando l’attenzione mediatica anche più del Coronavirus, per via dell’incremento del fenomeno registrato in queste ultime settimane e degli incidenti drammatici che si sono susseguiti. In particolare,  ad aver colpito l’opinione pubblica e occupato le prime pagine dei giornali è stato il “caso” di Doudou Faye. Quindici anni e un accertato talento calcistico, il padre lo ha fatto salire su un’imbarcazione diretta alle Canarie e sull’imbarcazione Doudou è morto poco dopo la partenza, per una malattia, tra le braccia di un amico diciassettenne. Il corpo poi è stato gettato in mare.

La destinazione ultima del ragazzo era l’Italia. Grazie a non precisati intermediari, il padre di Doudou, Mamadou Lamine Faye, riteneva di aver trovato un club italiano interessato ad ingaggiare il ragazzo. Ai passeur avrebbe pagato circa 380 euro per coprire il costo del viaggio fino in Spagna. Non sappiamo se e quanto abbia pagato gli intermediari. Ora è stato arrestato dalla gendarmerie di Mbour – la città in cui risiede, a 80 km circa da Dakar – con l’accusa di avere indirettamente provocato la morte del figlio e favorito l’emigrazione clandestina. Poco dopo c’è stato l’arresto di un altro padre, quello dell’amico sopravvissuto a Doudou, tutt’ora sotto shock e incapace di parlare.

Mamadou Lamine Faye è un uomo che potremmo definire benestante: risulta proprietario di tre case e due imbarcazioni da crociera in funzione a Saly, località balneare molto frequentata dai turisti. La decisione di imbarcare il figlio non è stata dettata dall’indigenza ma dal desiderio e dalla fretta di dare a questo ragazzo un’opportunità che a suo avviso in Senegal non avrebbe avuto.

Avrebbe potuto seguire altre strade dati i suoi mezzi? E perché non l’ha fatto? Un ruolo lo hanno avuto di certo le restrizioni imposte dalla pandemia. Oggi ottenere un visto per l’Europa è ancora più complicato che in passato. E se si tratta di un minore le complicazioni crescono in modo esponenziale. Ma ci sono anche altri fattori. La paura di perdere l’occasione giusta, per esempio. Nel football servono contatti e si diventa vecchi rapidamente. Aspettare la maggiore età e i tempi della burocrazia per contattare un club e cercare un ingaggio è impensabile. E poi c’è la percezione distorta dell’Europa che continua a giocare un ruolo importante, l’avventura europea che rimane una sorta di rito di passaggio. L’Europa resta nell’immaginario locale la terra delle opportunità, anche se chi vi è chiuso dentro, in massima parte, la percepisce oggi come un continente in crisi e pronto all’implosione.

In Senegal molte realtà si stanno impegnando, dal punto di vista culturale e legale, per riportare in asse questa visione e dare consistenza alle opportunità che esistono nel Paese, nonostante l’impoverimento provocato dal Covid-19. Ci sono campagne indirizzate a scoraggiare partenze pericolose e a favorire ritorni ben congegnati. Esistono scuole di calcio serie, che provano ad offrire agli alievi una formazione complessiva, in modo che i tanti non destinati a diventare campioni possano comunque trovare un’occupazione. La Diambars Academy per esempio, che ha sede proprio a Saly ed è stata fondata, nel 1997, con l’idea di usare il calcio per avvicinare i ragazzini alla scuola.

La morte di Doudou, con tutti i suoi aspetti contraddittori e la mancanza di una seria azione politica preventiva (è quello che tanti senegalesi stanno rimproverando in questi giorni al governo) ha molto da dire però anche all’Europa e all’Italia.

Innanzitutto perché questo traffico di baby calciatori sembrerebbe essere alimentato proprio dalle società calcistiche auropee, attraverso una rete di intemediari più o meno ufficiali. Non sono solo le velleità dei genitori, insomma, a mettere in moto la macchina. Molti club trovano vantaggioso “pescare” in questo modo tra i talenti africani. Si spende tutto sommato poco e ci si può avvantaggiare tanto. La morte di Doudou ci rammenta inoltre l’inadeguatezza totale delle norme che regolamentano l’immigrazione, la disastrosa Bossi-Fini che continua a essere in vigore nonostante le promesse di cambiarla e le sue evidenti fallacie. Non è ammissibile che ancora oggi non ci sia un modo legale per entrare in Italia per ragioni di lavoro o formazione. Non è ammissibile che ciò che per un adolescente europeo costituisce un progetto di vita più o meno impegnativo, più o meno realistico, per un coetaneo nato in Africa debba risolversi in una sfida con la morte.

(Stefania Ragusa)

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