Nigeria, gigante fragile

di Marco Trovato
La strage nella chiesa cattolica di Owo, avvenuta domenica scorsa, è l’ennesimo episodio di una lunga scia di fatti sanguinosi che celano le scandalose contraddizioni della più popolosa nazione d’Africa: un colosso scosso da forti spinte identitarie e ferito da tensioni sociali strumentalizzate dai gruppi jihadisti

di Marco Trovato

“Il Gigante dai Piedi d’Argilla”: così veniva definita la Nigeria all’epoca delle indipendenze africane. La guerra per la secessione del Biafra (1967-70) stroncò subito gli entusiasmi per la liberazione del giogo coloniale e fece capire quanto sarebbe stata difficile e tormentata la storia di questa colossale nazione – disegnata a tavolino per interessi europei – costituita da ben 36 stati federali, attraversata da forti spinte identitarie e scossa da ricorrenti tensioni sociali. La strage compiuta domenica scorsa da un gruppo non ancora identificato di uomini armati nella chiesa cattolica San Francesco di Owo, costata la vita ad almeno 50 persone, è solo l’ultimo episodio di una lunga scia di fatti sanguinosi che hanno ferito la più popolosa nazione d’Africa: 210 milioni di abitanti.

In dieci anni gli attacchi terroristici di Boko Haram, gruppo jihadista attivo soprattutto nel nord-est del Paese, hanno provocato oltre 50.000 vittime tra i civili e le forze di sicurezza, costringendo oltre 3 milioni di persone ad abbandonare le proprie abitazioni. La popolazione di etnia Hausa e di religione islamica, maggioritaria nelle regioni settentrionali, ha pagato il prezzo più alto degli attentati condotti in moschee e mercati (che non hanno ricevuto da parte dei media italiani la stessa attenzione riservata all’ultimo attacco lanciato contro i cattolici). In passato tra gli obiettivi dei terroristi ci sono stati anche i fedeli delle chiese protestanti, evangeliche, pentecostali che proliferano ovunque nel Paese. Ma l’attacco di domenica per la prima volta è avvenuto in un territorio ritenuto finora piuttosto sicuro popolato soprattutto da cristiani di etnia Yoruba. Difficile dire al momento se questa strage rappresenti un cambio di strategia da parte dei jihadisti oppure se l’episodio vada inserito in una dinamica di contrapposizione e di destabilizzazione politica in uno stato federale che si appresta ad andare elezioni per l’elezione del governatore e in un momento in cui i principali partiti politici nazionali stanno decidendo con le loro primarie i candidati alle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo anno e che dovranno sancire il successore dell’attuale presidente Buhari (al termine del suo secondo e ultimo mandato previsto dalla Costituzione).

Pastori Fulani nella Middle Belt nigeriana (Luis Tato /Afp)

Al momento sotto accusa per la strage nella chiesa sono finiti i Fulani (chiamati anche Peul), popolazione seminomade di religione musulmana sparsa in diversi Paesi dell’Africa Occidentale, dedita alla pastorizia e al commercio, spesso in conflitto con le popolazioni sedentarie e agricole. Gli atavici scontri per il controllo dei terreni e delle pozze d’acqua, in questi ultimi anni si sono acuiti – complici anche i cambiamenti climatici e la crescente pressione demografica sull’ambiente – e hanno preso le sembianze di una vera e propria guerra che insanguinando il Sahel. Anche in Nigeria gruppi di miliziani Fulani radicalizzati hanno inneggiato alla jihad contro gli infedeli, il clima si è fatto pesante. Gli Yoruba si sentono sotto attacco.

Un tempo la ”Middle Belt”, “Cintura di Mezzo”, regione che fa da cerniera tra il Nord dominato dai musulmani e il Sud in buona parte cristiano, era un territorio di incontri e commerci proficui per tutti: il latte veniva scambiato contro il grano, il fieno rimasto dai raccolti alimentava il bestiame e lo sterco delle mucche fertilizzava il terreno. Le tensioni potevano sorgere specialmente quando un branco mangiava o calpestava il campo di colture di un contadino – ma i capi tradizionali avevano ancora il potere di mantenere la pace e la coesione tra le diverse comunità. Oggi non è più così. Nel Nord, i periodi di siccità sono sempre più ricorrenti e l’instabilità ha costretto decine di migliaia di persone ad abbandonare i propri villaggi. I Fulani si spingono verso sud, in cerca di pascoli e di sicurezza. Ma terra e acqua non bastano. Così le tensioni coi contadini – alimentate e strumentalizzate dai predicatori jihadisti – sfociano sovente in violenti scontri armati.  

La Nigeria poi risente l’instabilità esogena della regione in cui è collocata.  Nel vicino bacino del Lago Ciad l’attivismo di Boko Haram si affianca a quello dello Stato Islamico nell’Africa occidentale (Iswap), mentre l’ombra di al-Qaeda è proiettata dagli assalti dei miliziani di Ansaru: gruppi jihadisti appartenenti a network rivali, il che aggiunge ulteriore complessità in uno scenario di crisi perenne. Non solo. I gruppi armati del Sahel – attivi in Mali, Burkina Faso e Niger: tutti Paesi senza sbocco sul mare – stanno progressivamente spingendosi verso gli Stati costieri affacciati sul Golfo di Guinea, per guadagnare vie d’accesso all’Oceano Atlantico (dove si trovano i porti, snodi di traffici e motori delle economie regionali). Nel corso dell’ultimo anno si sono registrati diversi attacchi in Benin, mentre l’intelligence ha allertato le forze di sicurezza di Costa d’Avorio e Togo. Anche per questo motivo, la strage di domenica, avvenuta in uno stato meridionale e costiero della federazione nigeriana, ha allarmato gli analisti. Secondo Idayat Hassan, analista del Centre for democracy and development di Abuja, le modalità con cui è stato condotto l’attentato alla chiesa di Owo – con l’uso di armi pesanti ed esplosivi – farebbero pensare al coinvolgimento di un gruppo ben organizzato, come l’Iswap.

Studentesse Fulani in una scuola dello stato di Kaduna, nel nord della Nigeria (Luis Tato / Afp)

Ad aggravare la situazione in Nigeria c’è la violenza endogena del banditismo armato che prende a bersaglio scuole e treni per rapinare e sequestrare civili a scopo di riscatto, senza dimenticare la mai sopita lotta armata dei movimenti secessionisti degli Igbo, altro nervo scoperto che periodicamente torna ad infiammarsi. Nel sud-est della Nigeria, infatti, si trascina da anni la guerra a bassa intensità condotta da gruppi armati nel Delta del Niger, cassaforte del petrolio nigeriano, contro il governo di Abuja e le multinazionali petrolifere, accusate di sfruttare le ricchezze e devastare l’ambiente, sabotando gli oleodotti e attaccando gli impianti di estrazione del greggio. In questo territorio, un tempo un paradiso naturale, diventato una delle regioni più inquinate dell’Africa, le basi segrete dei ribelli sono nascoste in un dedalo di canali e acquitrini in cui ristagnano le chiazze oleose di petrolio, dove aleggiano i miasmi dei gas combusti, responsabili delle piogge acide e di malattie agli occhi e ai polmoni.

Già, il petrolio: ricchezza e maledizione nigeriana. Potrebbe promuovere lo sviluppo, invece acuisce le divisioni e alimenta la corruzione. I profitti finiscono nelle tasche di politici e affaristi, mentre il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, in una feroce guerra quotidiana per la sopravvivenza (specie oggi che il prezzo del grano e della manioca, beni alimentari essenziali, è cresciuto del 30% in pochi mesi a causa dell’instabilità internazionale).  I gruppi armati sfruttano le insoddisfazioni locali, le sperequazioni sociali, la mancanza di governance e le carenze di sicurezza per impossessarsi del territorio. Il governo di Abuja ha promesso il pugno duro per spezzare la minaccia terroristica. Ma la militarizzazione del territorio non basterà perché la sicurezza e la prosperità del popolo nigeriano sono prima di tutto una sfida politica. Le violenze non cesseranno fintantoché continueranno gli osceni contrasti, le scandalose contraddizioni e le paurose diseguaglianze che ancora oggi fanno della Nigeria un gigante fragile.

(Marco Trovato – direttore editoriale Rivista Africa)

Foto di apertura: volontari della Civilian Joint Task Force (CJTF) pattugliano le strade Maiduguri, nello stato di Borno, nord della Nigeria, insanguinato da Boko Haram (courtesy Marco Gualazzini)

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