Mali: tra un golpe e l’altro, la fragile transizione

di Celine Camoin

Per la seconda volta in nove mesi, i militari hanno spodestato i leader istituzionali del Mali. Ieri, il colonnello Assimi Goita ha affermato che il primo ministro della transizione Moctar Ouane è stato “incapace di costituire un interlocutore affidabile, idoneo a mobilitare la fiducia dei partner sociali” e che assieme al presidente Bah N’Daw, stava violando la Carta della transizione. Fin dove voglia arrivare il colonnello Goita, è ancora incerto. Di fatto, ora Goita fa le veci del presidente. Ufficialmente, promette che la transizione sarà completata nei tempi stabiliti e che le elezioni si svolgeranno nel 2022, come previsto.

Secondo un esponente del Movimento 5 Giugno (M5-Rfp) che la nostra redazione ha contattato ieri pomeriggio, Goita ha chiesto immediatamente consultazioni con la stessa piattaforma politico-sociale per trovare un nuovo primo ministro. Nuove, ennesime consultazioni, sono quindi in corso per mandare avanti la gestione del Paese in attesa delle elezioni teoricamente previste entro 18 mesi dall’avvio della transizione, lo scorso settembre.  

La reazione del nostro interlocutore, Broulaye Bagayoko, membro del partito “Alleanza Mali Dambé”, dinanzi agli sviluppi delle ultime 36 ore è contrastata. Se da un lato l’ingerenza forzata dei militari è contraria ai principi democratici e rappresenta un “contro-colpo di Stato”, l’esclusione del primo ministro e del presidente è accolta come un sollievo. Bagayoko conferma alla rivista Africa che è stato il rimpasto di governo annunciato lunedì a far precipitare la situazione. Secondo la sua versione, al termine di lunghe trattative, si era raggiunto un consenso su una squadra di governo. All’ultimo momento però, senza avvisare il vicepresidente, la composizione sarebbe stata cambiata. Nell’elenco dei ministri reso noto al pubblico, due figure della giunta golpista,  alla guida della Difesa e della Sicurezza, sono state sostituite. Prelevati dai soldati di Goita, il presidente, il primo ministro e il neo ministro della Difesa, il generale Souleymane Doucouré, già capo di stato maggiore dell’aviazione, sono stati portati lunedì sera alla caserma di Kati, dove hanno dovuto affrontare il malcontento della giunta. Ouane è stato costretto a rassegnare le dimissioni. N’Daw si sarebbe dimesso in segno di solidarietà.

L’M5-Rfp, così come altre componenti sociali tra cui la più grande centrale sindacale del Paese entrata in sciopero da una settimana, era molto critico nei confronti dell’operato del governo di transizione. Lo è stato sin dai primi passi del dopo golpe, che il movimento aveva preparato con gigantesche manifestazioni popolari contro l’allora presidente Ibrahim Boucacar Keita, accusato di aver gestito il potere di maniera inadeguata e corrotta. Alla fine però, è stato un pugno di militari,  tra cui il colonnello Goita, a costringere Keita e la sua squadra alle dimissioni il 18 agosto. Tuttavia, né i militari, né i leader designati della transizione hanno mai conquistato la fiducia del Movimento 5 giugno, vero motore del cambiamento voluto nell’ultimo anno. Secondo Bagayoko, i golpisti si sono lasciati influenzare da leader della vecchia guardia. “Anziché lavorare con noi, hanno lavorato con gli stessi responsabili della crisi in cui si ritrova il Mali”, sostiene. Nel mirino delle critiche, il primo ministro designato Ouane, ministro degli Esteri per sette anni sotto la presidenza di Amani Toumani Touré, e considerato dal M5 una pedina della Francia, imposto da Parigi e dalla Comunità economica dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas), intervenuta per mediare nella crisi. Finora, coloro che hanno guidato la transizione, sostiene l’esponente del M5, “non hanno fatto giustizia sulla corruzione del passato, hanno camminato nel buio, e hanno continuato ad essere influenzati dalla Francia”, come ha dimostrato la recente visita a Parigi di Bah N’Daw.

Ferma condanna della manovra dei militari è stata espressa da diverse organizzazioni della società civile, che ieri hanno istituito un collettivo battezzato “Salviamo la democrazia dai golpisti”, contrario all’uso delle armi per difendere posizioni politiche. La protesta di piazza contro il “golpe nel golpe”, tuttavia, non ha coinvolto più di qualche decina di attivisti, radunatisi sulla piazza dell’Indipendenza di Bamako, mentre si fanno attendere altre reazioni da parte di esponenti di spicco.

Dal nordest del Mali, nel territorio dell’Azawad, la componente tuareg osserva con circospezione  gli sviluppi nella lontana capitale amministrativa. “Se i miliari non presenteranno rapidamente un’alternativa, la situazione, già guasta, rischia di peggiorare e di dare luogo a nuove proteste, che potrebbero sfociare in violenze”, commenta ad Africa un esponente della comunità tuareg, che preferisce mantenere l’anonimato. Per questo popolo, dalla cultura e dalle caratteristiche molto diverse dalla maggioranza nel sud, con la quale non si è mai sentita in sintonia, le debolezze di Bamako sono ennesime conferme che l’unità tuareg deve essere rafforzata e gestita autonomamente.

Dalla comunità internazionale sono piovute condanne e minacce di sanzioni.  Dall’Unione Europea all’Unione africana, dal segretario generale dell’Onu alla Minusma, da Algeri, da Parigi, le voci si sono unite in un coro di critiche nei confronti dell’azione autoritaria dei militari. Non è chiaro a questo punto come reagiranno i partner del Mali – Italia inclusa – davanti a un nuovo governo di transizione frutto un altro colpo di mano dei militari di Kati. La scorsa settimana, il ministro italiano della Difesa Lorenzo Guerini incontrava a Bamako il colonnello Goita, rallegrato dalle prospettive di cooperazione, soprattutto in ambito della sicurezza. Nel recente caso del Ciad, la successione alla presidenza del figlio del defunto presidente Idriss Deby Itno e di una giunta militare è stata tollerata dai partner internazionali, spiazzati dall’uccisione  sul campo di battaglia dell’uomo ‘forte’ del Sahel. Anche in Ciad, il governo civile di transizione è stato designato con la mano dei militari.

Come reagiranno, invece, i golpisti all’ennesimo tentativo di mediare di una comunità internazionale sempre più biasimata? Finora gli ufficiali hanno mostrato di avere in mano il vero potere. Lo sottolinea Camillo Casola, ricercatore all’Ispi: “La dimostrazione di forza del vicepresidente della transizione riflette la volontà dei militari golpisti di continuare a esercitare un peso preponderante e un’influenza assoluta sugli equilibri politici in Mali, censurando ogni tentativo di aggirarne autorità e prerogative. Ma, è davvero immaginabile che un processo di transizione fondato su queste premesse possa portare all’apertura una nuova stagione democratica tra nove mesi?

(Céline Camoin)

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