Caos Afghanistan e lezioni per il Sahel

di Celine Camoin

L’Afghanistan è tornato nelle mani dei talebani prima ancora che gli americani concludessero il ritiro delle truppe, e da allora, molti occhi sono puntati sui Paesi africani dove sono presenti truppe straniere ufficialmente impegnate contro il terrorismo. Cosa accadrebbe se queste truppe venissero ritirate anche da questi Paesi, dove, peraltro, sale l’ostilità nei confronti di tali contingenti militari stranieri?

Diversi osservatori africani se lo sono chiesto in questi giorni. Tra loro, in uno dei suoi ultimi editoriali prima di lasciare la direzione del quotidiano ivoriano Fraternité Matin, il giornalista e scrittore Venance Konan, a cui preme ricordare che “gli americani non erano in Afghanistan per gli afghani. Erano lì per i propri interessi. Per proteggersi dal terrorismo”. Ora, afferma, “si ritirano perché i loro interessi glielo comandano”. Stava agli afghani, dice ancora Konan, organizzarsi in modo da poter garantire la propria sicurezza, ma secondo gli osservatori, la corruzione è stata la causa principale della debacle che ha impedito alle forze afghane di sconfiggere la resistenza talebana. “Le autorità afgane stavano gonfiando il numero dei soldati per aumentare i conti che gli americani pagavano (nell’ambito dell’accordo per la formazione militare, Ndr), e la corruzione delle élite ha fatto ben poco per incoraggiare i soldati a rischiare la vita per loro”.

Secondo Konan, anche se gli americani fossero rimasti altri dieci anni, finché nel Paese regnava la corruzione il crollo sarebbe comunque avvenuto. “I Paesi africani in cui le forze straniere combattono i terroristi al posto delle forze di sicurezza autoctone dovrebbero capire che quando gli interessi di quei Paesi stranieri ordineranno loro di andarsene, se ne andranno senza scrupoli”. Perché in fondo, “i Paesi europei che hanno inviato soldati a combattere in Africa lo fanno per proteggersi dal terrorismo in patria”.

L’editorialista di Fraternité Matin invita Paesi africani coinvolti in tali situazioni ad assumersi le proprie responsabilità, approfittando della presenza di queste forze straniere. “Non si possono ingannare i principi dell’etica, finiranno sempre per raggiungerci. I nostri Paesi sono molto puntigliosi quando si tratta di corruzione, ma ne paghiamo sempre le conseguenze”. Adesso, sono gli afghani a pagare un prezzo pesante. “Quando in un Paese si passa più tempo a litigare per raggiungere il potere piuttosto che a combattere contro i terroristi che occupano terreno e massacrano popolazioni ogni giorno, quando facciamo credere che i soldati vengono addestrati, quando non è così, si paga sempre un conto molto salato nel momento in cui le forze straniere si ritirano”. E finiscono sempre per ritirarsi, perché nessun Paese ha la vocazione a restare indefinitamente in un altro.

Dal Niger, è l’attivista Moussa Tchangari, segretario generale dell’Associazione Alternatives Espaces Citoyens, a lanciare l’allarme: “la caduta di Kabul deve suonare come un campanello d’allarme per il Sahel”, scrive, perché “prefigura ciò che potrebbe accadere, nei prossimi anni, se le élite al potere e i loro sostenitori occidentali continueranno a ignorare le richieste di audaci riforme politiche”. La caduta di Kabul, secondo Tchangari, indica che la guerra contro i gruppi armati jihadisti non può essere vinta evitando tali riforme, uniche in grado di coinvolgere nella battaglia “la più grande forza politica e militare, il popolo”.

Dopo vent’anni di combattimenti, che hanno provocato enormi perdite di vite umane, “soprattutto tra la popolazione afghana”, gli eserciti occidentali, dotati dei mezzi più sofisticati, “hanno fallito di fronte ai determinati talebani; ma questo fallimento è prima di tutto quello dei leader politici occidentali”, scrive Tchangari, sottolineando, anche lui, gli errori di “scommessa su un’élite corrotta, che condivide con i talebani la profondità del rifiuto di democrazia”.

Dal Burkina Faso, per il giornalista di LeFaso.net, Dimitri Ouedraogo, la presa del potere da parte dei talebani è la dimostrazione che è errato affidare la sicurezza di un Paese a stranieri. Un’altra lezione, secondo lui, è quella di non sottovalutare la determinazione dei gruppi radicali. “Per 20 anni i talebani ci hanno creduto. Non hanno mai abbandonato”. E questa è anche la prova che la tenacia porta a risultati vittoriosi.  “Queste due lezioni, gli africani le devono imparare. Abbiamo realtà diverse, ma si somigliano. Ora stiamo cercando di esternalizzare la nostra sicurezza alle potenze occidentali. Tuttavia questi partner hanno mostrato a sufficienza i loro limiti sul campo. Da tempo lavoriamo insieme nella lotta al terrorismo. Sfortunatamente, sembra che stiamo sprofondando sempre più nell’abisso”. E il terrorismo, avverte il redattore, non finirà presto.

(Céline Camoin)

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