La crisi dei partiti islamisti in Nord Africa

di claudia

Dall’Egitto al Marocco, passando per la Tunisia, le forze politiche islamiste hanno fallito le loro prove di maturità e si sono rivelate inadeguate a ricoprire ruoli di governo, tradendo le aspettative dei loro stessi sostenitori. Oggi vivono una crisi che ha radici profonde. A fronte di ciò emerge un quesito importante: può esistere una via islamica alla democrazia?

di Federico Pani

Le primavere arabe hanno portato alla ribalta i partiti che prendevano a modello i Fratelli Musulmani. Oggi queste formazioni appaiono in crisi e non godono più del sostegno popolare. Nel mondo arabo gli islamisti moderati appaiono essere in difficoltà. In Tunisia il partito Ennahda aveva la maggioranza in parlamento fino a luglio scorso, quando il presidente Kais Saied ha sospeso l’assemblea e ha assunto il potere esecutivo. Un mese dopo in Marocco il “Partito della giustizia e dello sviluppo” (PJD), che guidava la coalizione governativa, è andato incontro ad una dura sconfitta alle elezioni.

Dieci anni fa i partiti islamici apparivano essere in ascesa e cavalcando l’onda delle rivoluzioni democratiche riuscirono ad andare al potere promettendo speranza e cambiamento. Ma gli egiziani si sono ben presto stancati del presidente Mohamed Morsi, dei Fratelli Musulmani, che è stato deposto dall’esercito nel 2013. Nello stesso anno, dopo una serie di proteste che hanno portato il Paese sull’orlo del baratro, Ennahda ha accettato di cedere il passo.
Il rischio è che gli islamisti ne traggano una lezione pericolosa domandandosi se sia opportuno o meno prendere parte a sistemi politici che si mostrano poco liberi ed equi.

Le origini della Fratellanza Musulmana

Nel 1928 in Egitto venne fondata da Hasan al-Banna la Fratellanza Musulmana. Dal punto di vista ideologico i Fratelli si accostavano soprattutto alla tradizione salafita, predicando un ritorno al Corano e alla sunna del Profeta e ponendo l’accento sul valore sociale e politico dell’islam. Il messaggio implicava in qualche modo degli accenni rivoluzionari: il rinnovamento dell’islam sul piano della pratica spirituale, che diveniva l’autentico fulcro ispiratore della vita dei credenti, doveva condurre ad una profonda trasformazione della società. In aperta sfida all’esclusivismo politico delle élite allargarono le basi della partecipazione popolare, prendendo le distanze dal conservatorismo religioso che era marchio di fabbrica dell’establishment islamico del tempo. In tal senso la Fratellanza divenne la prima forza politica “non elitaria” a gettare il guanto di sfida alle classi dominanti in Egitto.

La morte di Al Banna non significò la morte politica del Movimento che anzi ricoprì un ruolo di primo piano durante la rivoluzione degli Ufficiali Liberi nel luglio del ’52. Ma due anni più tardi la vita di Nasser venne attentata da un Fratello Musulmano: rimasto illeso il presidente egiziano colse l’occasione per sferrare il colpo decisivo mettendo al bando la Fratellanza. Sadat, successore di Nasser, provvide a decapitare l’élite dirigente filo-nasseriana, incarcerandone i principali esponenti: sotto la sua guida la sharia divenne la fonte principale della legislazione e la Fratellanza Musulmana venne riabilitata, potendo così riprendere la sua propaganda.
Durante la presidenza del suo successore, Hosni Mubarak, l’Egitto conobbe un crescente malcontento sociale, a cui si sommò un’escalation del terrorismo, che esplose in tutta la sua collera con le proteste di piazza Tahrir del 2011.

Le proteste di piazza Tahrir del 2011

Nel periodo di transizione che seguì il post Mubarak, la Fratellanza cercò di cavalcare l’onda della protesta popolare, ponendosi alla testa del movimento e proponendosi di modificare i connotati ad una rivolta che possedeva un carattere essenzialmente secolare uno altrettanto religioso. Sfruttando il momento favorevole trionfò alle elezioni parlamentari del 2011-12 con il partito chiamato “Libertà e giustizia” (FJP), riuscendo poi ad eleggere alla Presidenza della Repubblica il proprio candidato Muhammad Mursi. Ma il 3 luglio del 2013 un colpo di stato guidato dai militari è riuscito nell’intento di defenestrare il presidente, ponendo fine al governo dei Fratelli Musulmani. Il nuovo esecutivo guidato da al-Sisi appare però non essere riuscito nell’intento di imprimere una svolta alla realtà socioeconomica del Paese.

Tunisia e Marocco

Il successo della Fratellanza non si limitò soltanto all’Egitto ed anzi a partire dagli anni Quaranta si propagò in buona parte del mondo arabo.
Il Marocco, Paese tradizionalmente moderato, ha conosciuto sotto il monarca Muhammad VI un processo di stabilizzazione e di crescita economica e culturale. Dimostrando un’indubbia abilità politica, contestualmente alle rivolte arabe Muhammad VI procedette immediatamente a promulgare tutta una serie di misure volte ad allontanare dal potere lo spettro delle contestazioni: le riforme riuscirono nell’intento di mitigare le proteste di piazza, consentendo al sovrano di accreditarsi come un monarca aperto.
Alle elezioni politiche del 2011, il partito islamista moderato di Giustizia e sviluppo (PJD), equiparabile sotto il profilo teorico alla Fratellanza Mussulmana, ha ottenuto la maggioranza in parlamento, consentendo a Benkirane, suo segretario, di divenire Primo ministro. Il PJD ha poi trionfato nuovamente alle elezioni del 2016.

In Tunisia nel novembre del 1987 il primo ministro Ben Ali depose con un colpo di stato Burghiba, venendo poi eletto presidente della Repubblica. Le vere motivazioni del colpo di mano risiedevano, oltre che nelle difficoltà economiche e sociali che attanagliavano il Paese, anche nel timore che la sfida lanciata dagli islamisti potesse minacciare le strutture dello Stato. Non è un caso che proprio durante i suoi primi due anni da presidente, Ben Ali riconobbe il partito islamista denominato “Movimento della tendenza islamica”, guidato da Rashid Ghannushi, che si ispirava ai Fratelli Musulmani. Con il passare del tempo le aperture sono andate via via diminuendo fino a scomparire quasi del tutto, lasciando lo spazio ad uno stato poliziesco. A subirne le conseguenze fu il Movimento della tendenza islamica, ribattezzato al-Nahda, che venne bandito e messo fuorilegge, e Ghannushi, condannato all’esilio.

Il declino economico che caratterizzò il Paese esasperò la protesta sociale che esplose poi nel dicembre del 2010 in una vera e propria rivoluzione, costringendo Ben Ali alla fuga. Le masse popolari non furono in grado di dirigere dal basso la transizione del Paese fornendo così carta bianca ad Al-Nahda ed al suo leader Ghannushi il quale ebbe il buon senso di non monopolizzare il processo politico, consentendo la nascita di un governo di larghe intese che culminò con l’elezione a presidente della Repubblica di Moncef Marzuqi.

Dopo la caduta della Libia di Gheddafi, sul piano geo-strategico la Tunisia è divenuta la chiave per controllare la fascia nordafricana. Per tale ordine di ragioni le pressioni su Tunisi si sono amplificate e questo, sommato alla debolezza della classe politica, ha condotto il Paese sull’orlo del precipizio. È in tale contesto che può essere collocata la vittoria di Kais Saied, il quale ha esteso fino “a nuovo avviso” le misure adottate in applicazione dell’articolo 80 della costituzione, esautorando da ogni competenza governo e parlamento.

il presidente Kais Saied
Kais Saied, Presidente della Repubblica Tunisina

I motivi del fallimento

I casi presi in esame pongono un quesito importante, ovvero se appare lecito cercare di tracciare una via islamica alla democrazia. Quando nel 2011 sono scoppiate le rivolte in Nord Africa e nel Medio Oriente molti osservatori si sono affrettati a sottolineare come i tumulti di piazza non facessero in realtà alcun riferimento esplicito all’islam. Questa interpretazione andava letteralmente a travolgere quel nesso tra impegno religioso e rivendicazione politica che aveva caratterizzato i primi passi del movimento islamista. Le manifestazioni di massa che univano sotto la stessa bandiera musulmani e non, andavano a teorizzare una sorta di democrazia diretta i cui protagonisti non avvertivano più né la necessità di una mediazione partitica né il richiamo ad una ideologia forte, in primis su tutte, quella religiosa.

Ma con il passare delle settimane l’islam ritornava prepotentemente ad impadronirsi della scena. Come sopra citato, in Tunisia faceva rientro in patria il leader del partito movimento islamista, Ghannushi, il quale non trovò di meglio che “annacquare” il protagonismo popolare di un marcato senso di un’islamizzazione. Un processo analogo avvenne in Egitto dove i Fratelli Musulmani si ergevano a protagonisti indiscussi della rivoluzione.

Le varie forze che parteciparono a Piazza Tahir dedicarono pochissimo del loro tempo alla costruzione di un progetto politico. Tale processo di formazione appare essere per questi movimenti acefalo: a mancare ai partiti islamisti è infatti quella fase caratterizzata dalla dialettica sociale che essi non hanno mai conosciuto. I lunghi decenni di repressione ed emarginazione li hanno infatti privati di quella componente necessaria a compiere un vero e proprio percorso evolutivo. Quando poi sull’onda delle rivolte arabe questa opportunità si è loro presentata, i movimenti hanno visto venire a galla tutta la loro impreparazione, illudendosi che il loro cammino politico sarebbe stato inevitabilmente “illuminato” dalla verità di fede di cui si facevano portatori.
Lo stesso slogan tanto caro ai Fratelli Musulmani, ovvero “l’Islam è la soluzione”, può rappresentare a pieno titolo l’approssimazione con la quale questi movimenti si sono approcciati alla cosa pubblica.

(Federico Pani – Amistades)

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