Le uova di Pasqua e la guerra del cacao africano

di Marco Trovato

I produttori africani sono in guerra contro le multinazionali del cioccolato. È un conflitto commerciale che ha ripercussioni pesanti su decine di migliaia di piccoli coltivatori di cacao della Costa d’Avorio e del Ghana, ma che coinvolge anche noi, come scoprirete in questo articolo. E non è detto che i consumatori debbano restare spettatori passivi di questo duro scontro…

di Marco Trovato

Per Pasqua, si prevede verranno vendute e consumate in Italia, malgrado la crisi, più di 30.000 tonnellate di uova di cioccolato, al latte e fondente, per un fatturato superiore ai 270 milioni di euro. Ma è un business che quest’anno ha un retrogusto amaro: quantomeno per i coltivatori africani del cacao, che in queste settimane stanno subendo gli effetti di una guerra commerciale inedita e brutale che contrappone le multinazionali del cioccolato e i principali Paesi produttori, in gran parte africani.

Primato africano

Oggetto della contesa: il prezzo della materia prima. In una disputa come questa i consumatori possono dire la loro, ovvero mostrare coi loro acquisti da che parte stanno. Andiamo con ordine. Un tempo il Brasile vantava il primato delle esportazioni di cacao (l’America Latina è la culla della pianta), ma a partire dagli anni Sessanta la produzione si è spostata nei Paesi africani affacciati sul Golfo di Guinea. Una regione, questa, che vanta diversi punti di forza: clima ideale, ampia disponibilità di terre, costo minimo della manodopera, posizione geografica (le piantagioni sono vicine ai porti). Tutte condizioni favorevoli che nel corso degli ultimi cinquant’anni hanno richiamato investimenti massicci per l’agricoltura estensiva. Oggi il 75% del cacao mondiale proviene da tre stati dell’Africa occidentale: Costa d’Avorio (che da sola assicura metà del totale), Ghana e Camerun. Piccole produzioni arrivano anche da Togo, Sierra Leone, São Tomé e Príncipe.

Business per pochi

Lavoratori in un magazzino di fave di cacao a Sao Tome (Marco Trovato)

Il cacao africano viene esportato nella sua quasi totalità grezzo, in forma di fave fermentate ed essiccate. Tre grandi multinazionali controllano il 90% del mercato: Barry Callebaut (belga-franco-svizzera), Cargill (Usa), Olam (Malaysia). Poi ci sono i big dell’industria dolciaria che si occupano della trasformazione del prodotto, i marchi più conosciuti dai consumatori: Nestlé, Mars, Ferrero, Mondelēz, Hershey, Lindt… Il mercato del cacao vale 125 miliardi di dollari l’anno, ma l’80% circa dei profitti resta nelle mani di chi si occupa della lavorazione delle fave e della distribuzione dei prodotti lavorati. Solo una minima parte (circa il 5%) va ai produttori.

«I coltivatori africani vivono sulla soglia di povertà, in balia delle quotazioni di borsa governate a Londra e New York dai pochi grandi player del mercato», chiarisce Andrea Mecozzi, fondatore di Chocofair, tra i massimi esperti del settore in Italia. «La corsa al prezzo più basso favorisce il fenomeno del lavoro minorile – baby manovali ridotti in semischiavitù da bande al soldo delle multinazionali –, come dimostra il processo in corso a Washington contro Barry Callebaut, Cargill e Olam».

L’accordo tradito

Oltretutto, il sistema produttivo rimunera la quantità, non la qualità. «I piccoli produttori, in concorrenza tra loro, sono incentivati dalle logiche del mercato ad aumentare il volume del raccolto: ciò porta a fornire cacao mal fermentato, perché pesa di più non avendo buttato fuori tutta l’acqua. Inoltre, le piantagioni industriali favoriscono la deforestazione, perché per aumentare la produzione diffondono piante di specie ibride moderne sempre più redditizie, che però nel giro di pochi anni impoveriscono il terreno, assorbendo grandi quantità di nutrienti e metalli, e portano all’abbandono delle campagne».

Il frutto del cacao in Costa d’Avorio (courtesy Marco Garofalo)

Un anno fa, nel tentativo di tutelare i propri contadini, Ghana e Costa d’Avorio (assieme producono il 68% del cacao mondiale) hanno deciso di far pagare agli importatori una tassa di 400 dollari a tonnellata, che si aggiunge al prezzo di mercato. In un primo momento le multinazionali hanno accettato, ma lo scorso settembre – adducendo una prevedibile crisi dei consumi legata alla pandemia – hanno ingaggiato una vera battaglia per evitare di pagarla. Alcune realtà, come la francese Cémoi o l’italiana Domori, hanno mantenuto fede agli impegni. Ma gli altri big si sono rifiutati di corrispondere quanto concordato.

Scontro durissimo

Fallita la mediazione dell’Icco (International Cocoa Organization, la più importante organizzazione mondiale del settore, che raggruppa 50 Paesi, di cui 22 esportatori e 28 importatori), si è andati allo scontro. Oggi le multinazionali si sono spinte per la prima volta a intaccare le riserve mondiali di cacao custodite per convenzione al porto di Amsterdam (pari a circa 200-400.000 tonnellate di fave che servono a mantenere stabile il prezzo della materia prima nel mercato) e si rifiutano di acquistare dai produttori africani, scommettendo sul fatto che prima o poi questi (che non hanno magazzini di stoccaggio né impianti di trasformazione) dovranno cedere in questo braccio di ferro.

Una bottega di cioccolato artigianale ad Abidjan, Costa d’Avorio (courtesy Marco Garofalo)

Nel frattempo le esportazioni dal Golfo di Guinea sono bloccate. Tonnellate di fave di cacao sono stipate nei container delle navi ferme da settimane nei porti di Abidjan (Costa d’Avorio) e Tema (Ghana). Il raccolto rischia di andare perduto. Se i governi africani perderanno la guerra del cacao, i piccoli produttori subiranno i contraccolpi più pesanti della crisi. Le prossime settimane saranno decisive.

Ma non è detto che i consumatori debbano restare spettatori passivi. E torniamo al discorso delle uova di Pasqua, che, alla luce di quanto raccontato, possono celare storie di sfruttamento o di riscatto. Perché le uova di cioccolato non sono tutte uguali. Una questione non solo di gusti, ma anche di giustizia e di sostenibilità.

Come scegliere?

Leggere con attenzione le etichette può essere d’aiuto, ma il marketing può trarre in inganno: a guardare le confezioni, sembra che i grandi gruppi industriali stiano facendo a gara a chi sia più equo e green. Marchi e certificazioni infondano nel consumatore l’idea che il prodotto che sta comprando sia, sotto i profili etico e ambientale, privo di macchia. Non sempre è così. Persino le organizzazioni umanitarie che vendono uova per scopi benefici spesso usano il cioccolato industriale che alimenta lo sfruttamento.

Cacao in Costa d’Avorio (courtesy Marco Garofalo)

ChocoFair prova ad andare controcorrente: «Dal 2013 permettiamo ai produttori di cacao di entrare direttamente sul mercato europeo del cioccolato – garantendo loro un giusto compenso, rispetto del lavoro e sviluppo sostenibile – e ai cioccolatieri e gelatieri europei di accedere a un prodotto di pregio, etico e sicuro in modo diretto», argomenta Andrea Mecozzi, a capo di una rete di produttori, cooperative e trasformatori che punta a garantire un approvvigionamento sicuro e tracciabile di cacao creato nel rispetto della terra e delle persone. «La lotta alle speculazioni e allo sfruttamento del cacao si fa con la qualità, perché la qualità garantisce il consumatore, garantisce i produttori primari e soprattutto garantisce le aziende alimentari italiane perché possono creare filiere stabili e durature». È il contrario del modello delle grandi multinazionali, che basano il loro business sulla standardizzazione che serve al mercato per tenere bassi i prezzi e alte le disponibilità per gli scambi in borsa. «Le filiere dirette spezzano tale processo e garantiscono di non incentivare i fenomeni di sfruttamento».

«Qualità e sostenibilità»

I produttori di ChochoFair operano nella zona del Basso Bandama in Costa d’Avorio e nella Riserva della Gola in Sierra Leone. «Qui il cacao non ha necessità di concimazioni o trattamenti chimici perché la sua coltivazione è integrata nell’ecosistema – chiarisce Mecozzi –. Sono piante e frutti di grande pregio che permettono ai produttori di specializzarsi nel biologico. Noi insegniamo ai coltivatori a farsi il cioccolato a mano nelle piantagioni, in maniera che siano i primi a conoscere e a poter migliorare la bontà dei loro prodotti».

https://www.chocofair.org/

Questa filosofia ha ispirato la nascita di piccole e virtuose realtà produttive che oggi trasformano il cacao sul posto e vendono direttamente cioccolato artigianale: possiamo citare ChocoToGo in Togo (che peraltro già vende on line direttamente, spedendo in tutto il mondo) o Chocoplus per la Costa d’Avorio (che impiega nelle sue attività categorie svantaggiate e vulnerabili). Ma soprattutto ha cambiato il paradigma della produzione, mettendo al centro la qualità, e non la quantità del prodotto. «Abbiamo lavorato sulla formazione dei coltivatori e strutturato filiere che oggi permettono ai trasformatori italiani di avere un rapporto diretto e di interscambio con i coltivatori. Partiamo dall’assunto che “il vino nasce in vigna” – e il cioccolato nasce in piantagione». Da tenere presente a cominciare dalla prossima Pasqua.

Le due filiere oggetto di questo incontro sono alla base delle uova di Pasqua Ad Gentes (Centrale di commercio equo di Pavia) e Domori Bio (a sostegno del Gruppo Abele di Torino). Inoltre riforniscono la pasta di cacao Macondo, usata da tanti gelatieri artigianali in giro per la Penisola. Anche le Uova di Pasqua Alce Nero sono prodotti speciali, perché realizzate con cacao 100% biologico originario dalla Cooperativa Scay della Costa d’Avorio e al loro interno contengono una golosa sorpresa: pure fave di cacao ricoperte di cioccolato. Gustose e rispettose dei produttori e dell’ambiente. Conclude il fondatore di ChocoFair: «Il cioccolato di qualità made in Italy fatto con cacao africano certificato contribuisce a fermare la deforestazione e premia i piccoli produttori che hanno a cuore il proprio lavoro». Ricordatevelo, la prossima volta che acquisterete una tavoletta, un uovo o un gelato artigianale.

(Marco Trovato)

Foto di apertura: courtesy Pxhere

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