La coraggiosa opera prima di Alice Diop, premiata a Venezia

di claudia
saint omer

di Annamaria Gallone

Vi presentiamo l’ultimo film della regista franco-senegalese Alice Diop, Saint Omer, che uscirà nelle sale italiane a novembre, visto in anteprima a Venezia dalla nostra esperta di cinema africano, Annamaria Gallone. Già affermata documentarista, la regista per il suo primo lungometraggio si è ispirata a una tragica storia vera, affrontando il delicato tema dell’infanticidio.

Il nostro silenzio non ci proteggerà. Voglio dire che non taceremo più”. Queste le parole, tratte da un libro di Audre Lorde, Sister Outsider, sono state pronunciate da una emozionatissima Alice Diop nel ricevere il Gran Premio della Giuria da Julienne Moore per il suo film SAINT OMER, in competizione ufficiale alla recente 79ª Mostra del Cinema di Venezia (31 agosto/31 settembre). E oltre al Leone d’Argento, la regista ha ricevuto anche il premio Opera Prima De Laurentis, il Leone del Futuro.

Premi meritatissimi per questa regista, nata in Francia nel ‘79 da genitori senegalesi, e già conosciuta come brava documentarista. (La permanance, 2016, premioCinéma du Réel; Vers la tendresse, 2017, premio César; Nous, 2021, premio al Festival di Berlino). E quelli di Venezia, come dicevo, sono premi meritatissimi perché Alice ha fatto una scelta originale e coraggiosa, ispirandosi ad una tragica storia vera.

Nel 2016, nell’aula di tribunale di Saint-Omer, un paese dell’estremo nord della Francia, vicino a Calais, si è svolto un processo a carico di una giovane donna franco-senegalese, accusata di aver ucciso la figlia di quindici mesi abbandonata all’arrivo dell’alta marea su una spiaggia.

La genesi del film è nata da una fotografia che Alice aveva visto su Le Monde, tratta da una telecamera di sorveglianza della stazione Gare du Nord di Parigi. Ritraeva una donna di colore che spingeva un passeggino con un bambino. La regista ha intuito che potesse essere senegalese perché c’era qualcosa di familiare in lei che l’ha colpita e da quel momento ha cercato di capire perché avesse ucciso sua figlia, e questa ricerca pian piano è diventata un’ossessione. La donna della foto era Fabienne Kabou, franco-senegalese come la regista: il suo è stato un caso che ha sconvolto l’opinione pubblica. Colta, cresciuta in una famiglia piuttosto agiata, è arrivata in Francia per studiare filosofia. Rimasta incinta, ha vissuto la sua gravidanza isolata, senza mai confidarsi con nessuno e non ha iscritto sua figlia all’anagrafe, decidendo poi di ucciderla. Tutti i media hanno seguito quel processo e nessuno è riuscito a capire la sua scelta. Totalmente coinvolta, Alice decide di andare a Saint-Omer per seguire il processo. E il luogo del processo è anche il titolo del film.

Alice Diop alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia (foto da Twitter)

All’inizio in verità la regista non aveva pensato di farne un film: sono stati i produttori che da anni la seguono nel suo lavoro di documentarista a spingerla. Lei stessa scrive allora la storia insieme alla sua editor Amrita David e alla scrittrice Marie Ndiaye.

Nel film vediamo la giovane scrittrice, Rama, (Kayije Kagame, vincitrice del premio Goncourt con «Trois femmes puissants) seguire il processo di Laurence (Guslagie Malanda), nata nel 1980 a Dakar, studentessa che vive nella periferia di Parigi, accusata di aver ucciso la figlia di 15 mesi lasciandola sulla spiaggia, una notte, a Berck, mentre la marea stava salendo. E Alice Diop svela una delle ambizioni segrete del suo film: utilizzare “il potere della narrazione per sublimare il reale“.

Spiega che il film ha preso forma a metà del processo, quando “è successo qualcosa di molto strano, perché la donna nella confessione ha cominciato a descrivere il suo omicidio nei minimi dettagli. Ovvero come avesse, prima di uccidere, nutrito la bambina, l’avesse fatta riposare e cullata. Un racconto, il suo, molto letterario, nei minimi dettagli, talmente minuzioso da risultare lirico” …La prima parte del film è tutta di parole. All’inizio Rama vede in Laurence una moderna Medea e infatti scorrono nel film le immagini di Maria Callas, la Medea di Pasolini (che la regista considera un suo maestro) in procinto di uccidere i figli. “Spinta da un’immaginazione intrisa di figure mitologiche ho scritto questo film su una madre infanticida con lo scopo di scrivere una rivisitazione contemporanea del mito di Medea”.

L’approccio razzista che l’imputata vive, per estrazione sociale ma soprattutto per le sue origini, non è volutamente marcato dalla Diop, che afferma: “Ho voluto girare questo film per sondare l’indicibile mistero di essere madre.” E la mostruosità dell’atto di Laurence trova la sua legittimazione attraverso l‘arringa finale dell’avvocato donna che la difende parlando delle cellule chimera, parte di quello scambio reciproco tra cellule materne e cellule fetali.

Tutta la storia è raccontata dal punto di vista di Rama, particolarmente sensibile al trauma dell’accusata perché futura madre, incinta di quattro mesi e sofferente di un rapporto mai risolto con la propria madre. Ma sono tutti gli spettatori a sentirsi profondamente coinvolti dal linguaggio intimo, dal racconto quasi lirico di Laurence che fa di lei una storytelling, dalle due carismatiche attrici protagoniste, Guslagie Malanda e Kayije Kagame, dalle bellissime inquadrature fisse e dai lunghi discorsi ripresi fedelmente dalla camera e grande merito va dato anche alla fotografia pittorica di Claire Mathon.

Alice sottolinea: “Questo film è femmina. Il silenzio sulle donne nere non ci protegge e questa sera qui si è interrotto”. E aggiunge: “Questa è una storia complessa di due donne nere. Ho permesso loro di poter essere ascoltate in tutte le loro incertezze, insicurezze e timidezze. In un certo senso è anche qualcosa di molto politico”.

Saint-Omer è prodotto da SRAB Films in coproduzione con Arte France Cinéma, mentre le vendite sono affidate a Wild Bunch International. Il film uscirà nelle sale italiane a novembre, distribuito da Minerva Pictures.

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