Etiopia, scontro politico e armato, ecco le forze in campo

di claudia
guerra in Tigray Etiopia

Il conflitto scoppiato un anno fa nella regione del Tigray tra il governo federale etiopico e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) nasce da “divergenze politiche” a cui occorre offrire una “soluzione politica” per scongiurare che un’ulteriore escalation del conflitto “possa avere conseguenze dirette su tutta la regione del Corno d’Africa”. Questo è quanto ha dichiarato l’inviato dell’Unione africana per il Corno d’Africa, Olusegun Obasanjo, riferendo al Consiglio per la Pace e la sicurezza dell’Ua sugli incontri avuti rispettivamente con il premier etiopico Abiy Ahmed e il presidente del Tigray, Debretsion Gebremichael, sottolineando che il fatto che le due parti concordino su questo punto offre “una finestra di opportunità” per una mediazione che porti a un cessate il fuoco, rimarcando però come “il tempo sia limitato”.


Le ostilità scoppiate nel novembre 2020 affondano infatti le radici in uno scontro di natura politica riguardante l’assetto istituzionale da dare all’Etiopia, il secondo Paese più popoloso del continente africano. Uno scontro che si è andato intensificando nei mesi successivi all’ascesa al potere di Abiy nel 2018, che ha messo fine ai 27 anni di governo della coalizione formata da tigrini, oromo e amhara e dominata dal Tplf. Abiy ha fatto confluire le forze oromo e amhara della precedente coalizione in un unico partito, il Partito della Prosperità, sostenendo la necessità di una forma di governo più centralizzata, opposta al sistema federale su base etnica sostenuto invece dal Tplf, capace di superare anche la doppia identità, etiopica e etnica. Un progetto da subito contrastato dai vertici tigrini, che hanno rifiutato di convergere nel nuovo partito e nel settembre del 2020 hanno poi tenuto le elezioni nel Tigray, sfidando il divieto imposto dal governo.


Lo scontro è sfociato poi a novembre in un conflitto armato che oggi vede impegnate più forze, che si identificano su base etnica, andando così ad alimentare sentimenti di ostilità interetnici, in particolare contro i tigrini, sospettati di sostenere l’ex partito di governo che lo scorso maggio è stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche.


Le forze del Tigray


In tale contesto le forze del Tigray rappresentano la componente principale del conflitto, anche perché, come ammesso dagli stessi leader del Tplf, si stavano appunto preparando allo scontro con il governo federale già prima del novembre 2020, e con l’attacco al Comando Nord dell’esercito, il meglio armato del Paese in virtù della situazione di “né pace né guerra” che si era protratta con la vicina Eritrea dopo il conflitto del 1998-2000, sono entrate in possesso del suo arsenale. Allo stesso tempo l’inizio del conflitto armato ha portato molti ufficiali tigrini ad abbandonare le file dell’esercito per unirsi alla guerriglia lanciata nella regione dopo l’iniziale vittoria del governo di Addis Abeba, costretto lo scorso giugno dagli eventi sul campo e dalle pressioni internazionali a dichiarare un cessate il fuoco unilaterale e a ritirare le proprie forze armate dalla regione.

L’esercito federale


Sul fronte opposto è impegnato l’esercito federale, costruito dal generale ed ex capo di Stato maggiore Tsadkan Gebretensae, oggi membro del comando centrale delle forze del Tigray e suo principale stratega. Un esercito considerato da sempre uno dei più efficienti e meglio armati del continente africano, ma che negli ultimi due anni ha subito un processo di graduale decentralizzazione, con la creazione di corpi di polizia e milizie regionali, soprattutto nelle regioni Oromia e Amhara, in un’ottica di bilanciamento con le forze federali ritenute vicine al Tplf, anche perché buona parte della linea di comando era appunto composta da tigrini. Lo stesso Abiy, dopo l’attentato del giugno 2018 a una manifestazione di piazza ad Addis Abeba, ha dato vita a un nuovo corpo di elitè, la Guardia repubblicana, distinta dalle forze federali.


Le forze Amhara


Al fianco dell’esercito ci sono le forze regionali Amhara, distinte tra forze di polizia, controllate dall’amministrazione regionale, e le forze Fano, una milizia di autodifesa indipendente dalle autorità regionali. All’inizio del conflitto le forze Amhara hanno preso il controllo del Tigray occidentale, area reclamata come parte integrante della regione Amhara e che dal 1991 era stata invece inglobata dal Tplf nel Tigray, garantendo alla regione un collegamento con il vicino Sudan. Le forze Amhara appaiono oggi come la componente più determinata ad andare avanti nel conflitto, anche perché un’eventuale vittoria del Tplf comporterebbe un loro deciso ridimensionamento. Non a caso nel “Fronte unito di forze federaliste dell’Etiopia” annunciato nei giorni scorsi a Washington da nove organizzazioni etiopiche, tra cui il Tplf, non si conta alcuna formazione Amhara.


Le forze eritree


La prima fase del conflitto ha visto impegnate al fianco di Abiy anche le forze armate eritree, che a loro volta hanno preso il controllo dei territori del Tigray al centro del conflitto del 1998-2000 chiuso proprio dal premier Abiy Amhed con la pace siglata con Asmara nel 2018. Il Tplf ha più volte sollecitato il ritiro delle truppe eritree, che non sono al momento intervenute nella seconda fase del conflitto, segnata dall’avanzata delle forze tigrine fuori dai confini regionali, fino ad arrivare a circa 300 chilometri da Addis Abeba.


L’esercito di liberazione oromo


Nel corso di questa avanzata, il Tplf ha stretto alleanza con l’Esercito di liberazione Oromo (Ola), braccio armato del Fronte di liberazione Oromo (Olf), partito del principale gruppo etnico dell’Etiopia per anni costretto all’esilio perché ritenuto un’organizzazione terroristica dal governo dominato dal Tplf e rientrato nel Paese dopo l’insediamento di Abiy, primo premier di etnia oromo. L’Ola si è separato dall’Olf poco dopo il suo rientro in Etiopia, non accettando i termini dell’accordo raggiunto con il governo, e lo scorso maggio è stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche con l’accusa di aver commesso violenze contro civili. L’Ola, che rivendica il diritto all’autodeterminazione, non rappresenta tutto l’universo politico oromo, molto frammentato al suo interno tra i sostenitori della resistenza armata, tra i fautori di un’Oromia autonoma ma all’interno dello Stato etiopico, come il partito Oromo Federalist Congress, e tra i fautori di uno Stato etiopico centralizzato, come il premier.


Alla luce della molteplicità degli attori coinvolti, della complessità delle rivendicazioni dei diversi gruppi di interesse, uniti all’inasprirsi della conflittualità di matrice etnica e alle violazioni e gli abusi commessi da tutte le parti in conflitto, come documentato dall’indagine congiunta dall’Ufficio Onu per i diritti umani e dalla Commissione etiopica per i diritti umani, si comprende l’allarme lanciato dal capo politico dell’Onu, Rosemary DiCarlo, sul “rischio fin troppo reale che l’Etiopia precipiti in una più vasta guerra civile”, con effetti su una regione già segnata dall’instabilità, se non si dovesse concretizzare presto un cessate il fuoco. “Questo provocherebbe una catastrofe umanitaria e consumerebbe il futuro di un Paese tanto importante”, ha aggiunto DiCarlo nel suo intervento al Consiglio di sicurezza dell’Onu, a cui è intervenuto anche Obasanajo, chiedendo di fare presto per fermare le armi.

(Simona Salvi)

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