Antonio Dikele Distefano: «Ho scritto un libro per dispetto»

di AFRICA
Intervista al giovane scrittore-rivelazione Antonio Dikele Distefano

Ha origini angolane, ventidue anni. È cresciuto in Italia, si è fatto conoscere con internet. Dicono di lui che sarà il nuovo Fabio Volo. Oggi pubblica con Mondadori il suo primo romanzo: una storia d’amore velata dal razzismo

di Raffaele Panizza

 

Antonio Dikele Distefano, 22 anni, è un tipo ambizioso. «Dicono che sarò il nuovo Fabio Volo», dice, col suo cappello nero in testa, i jeans dai risvolti sottili e una rivendicata tendenza a sorridere poco. «Mi sta bene. Volo è un vincente. E a me, i vincenti piacciono». Mentre chiacchieriamo in una trattoria di Milano dove rifiuta di brindare anche solo con due dita di vino perché «no, non sono musulmano, ma non ho mai toccato alcol in vita mia», Antonio ha in tasca un contratto firmato con Mondadori, che ha pubblicato il suo primo romanzo, Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?, già scaricato in quindicimila copie nella sua versione ebook e da pochi giorni sbarcato in libreria.

Dolce amaro

Intervista al giovane scrittore-rivelazione Antonio Dikele DistefanoCento pagine di storie d’amore, isolamento, spaventose ragazzine bianche di buona famiglia («Ti amo perché quando sono sbronza sei la prima persona a cui penso»), frasi da deliquio perfette per Facebook («Non proverò a sostituirti, perché dimenticare una persona con un’altra è come fotografare il sole e sperare che di notte ci scaldi»), motti che sembrano l’eco di una gioventù poco spensierata («L’amore non finisce, si trasforma. Il sesso svuota, l’amore riempie») e considerazioni amare lasciate pronunciare dalle labbra di suo padre («Siamo solo scimmie clandestine che vengono nel loro paese a rubare il lavoro quando loro in primis ci hanno rubato la dignità»).

Un libro scritto per far dispetto alla madre di una ex, che lo trattava da spacciatore e perdigiorno, mentre lui sognava di fare il romanziere: «L’ignoranza – dice – non deve mai mettere le mani sull’amore». E scritto pure per dispetto verso di lei, «che si capiva benissimo cosa pensava in fondo, che non ero il ragazzo da presentare alle amiche, ma che alla fine stava con me lo stesso perché era politicamente corretto, perché era “una giusta causa”». Un progetto prima consegnato in pillole ai social network (dove ogni suo sussurro raccoglie centinaia di like) e poi pubblicato su Amazon a euro zero, secondo una strategia pianificata. «Studiando web marketing in rete – racconta Antonio, che nelle tante storie che si susseguono ci ha messo molto meno sesso di quanto avrebbe voluto – sennò mio padre, poi, chi lo sentiva».

Sulla strada…

Nato a Busto Arsizio (Varese) il 25 maggio 1992, figlio di un ex militare e rifugiato politico, è vissuto sballottato dal Nord Italia alla Puglia, ovunque i genitori trovassero lavoro come raccoglitori di frutta o domestici. «Siamo rimasti a Cerignola, in Puglia, quattro anni. Mamma faceva la badante mentre papà lavorava nei campi per tre euro l’ora, dodici ore al giorno. Guadagnava meno che in Africa, per paradosso. In quegli anni è nata anche mia sorella, che in barba a tutto quanto hanno deciso di chiamare Meraviglia».

Poi, tipico delle famiglie di immigrati, iniziano le piccole diaspore. Suo padre finisce a Villa Literno, a caccia di ingaggi stagionali. Mamma e bambini salgono in Romagna, in cerca di condizioni di lavoro e domicilio più favorevoli. A un certo punto, perdono la casa popolare a Ravenna assegnata loro dal Comune e finiscono a dormire in strada: «Ce l’hanno tolta perché mamma aveva aperto un negozietto di alimentari afro, e per le tabelle dell’amministrazione guadagnava troppo. Poi però un appartamento in affitto non ce lo voleva dare nessuno. Allora ci siamo indebitati per comprarne uno, il negozio è andato in malora, e la banca ha pignorato tutto».

Voglia di riscatto

Occupano un marciapiede per qualche settimana finché un pomeriggio, con l’inverno alle porte, una signora si ferma a fare qualche domanda, decide di caricarseli in macchina e li porta nella sua casa di Bertinoro, spaziosa a sufficienza, che divide col figlio. Una signora qualunque di nome Lara. Un ragazzino qualunque di nome Emanuele, che per Stefano, oggi, è un fratello. Storie che gli hanno lasciato addosso una voglia di riscatto.

Da anni gira gratuitamente le scuole della provincia di Ravenna, sua città d’adozione, con un progetto musicale chiamato Primavera Araba, in cui alterna storie d’immigrazione alle note dei cantautori italiani. Nel frattempo, racconta, sua madre se n’è tornata in Angola, senza avvertire nessuno, lasciandosi alle spalle i figli, il matrimonio, un Paese dove c’è da lottare e poco altro: «Ci ha detto che sarebbe stata via qualche giorno, per una vacanza, e non è più tornata», racconta, senza un filo di livore. «Tutti ci dicono “vi ha abbandonati”, ma io la capisco. Quando poteva mollarci davvero, quando non avevamo niente, non l’ha fatto. È andata a ritrovare la sua dignità quando ha capito che ormai eravamo al sicuro». È un ritornello che sente spesso, tra gli immigrati, giura Stefano: «Non si può morire in Italia, dicono, fumando una sigaretta dopo una giornata di lavoro».

Quello che chiede per sé è un epilogo diverso. Vuole fare i soldi. Perché i casi sono due: «O uno di noi diventa ricco e salva gli altri, oppure moriamo straccioni tutti quanti».

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