Allarme democrazia in Africa, cresce la curva dei golpe

di claudia

Il susseguirsi delle prese di potere militari nel continente, ultima in ordine di tempo quella del Sudan, sono una costante in Africa, con una frequenza media di quattro tentativi di colpi di stato all’anno, dalle indipendenze a oggi. Secondo un recente studio condotta da ricercatori statunitensi, nel 2021 la situazione è cambiata: quest’anno sta registrando un numero di rovesciamenti o tentativi di rovesciamenti notevolmente più alto della media.

di Valentina Giulia Milani

I colpi di Stato stanno diventando più frequenti in Africa? La domanda sorge spontanea di fronte al susseguirsi delle prese di potere militari – e non solo – registrate nel continente negli ultimi mesi. Lo spunto per questo ragionamento viene dal Sudan, teatro lo scorso 25 ottobre di un pronunciamento militare. Ma il Sudan è stato soltanto l’ultimo in ordine di tempo. In Mali un primo colpo di mano si è verificato il 18 agosto 2020, a cui è seguito quello del 24 maggio. Si è poi assistito alla presa di potere del colonnello Mamady Doumbouya in Guinea e appunto al Sudan, senza dimenticare la sospensione del Parlamento tunisino da parte del presidente Kais Saied. Inoltre, in Niger, un colpo di Stato è stato sventato a marzo, pochi giorni prima il giuramento del neo-eletto presidente Mohamed Bazoum, mentre in Ciad alla morte di Deby è seguito un altro Deby.


Le prese di potere militari sono state un evento regolare in Africa nei decenni successivi all’indipendenza ma uno studio dei due ricercatori statunitensi Jonathan Powell e Clayton Thyne intitolato ‘Istanze globali di colpi di Stato dal 1950 a oggi’ mostra come la curva si stia di nuovo alzando dopo i turbolenti periodi post-coloniali.
La ricerca ha identificato oltre duecento tentativi di spodestamento di leader in carica in Africa dalla fine degli anni Cinquanta e, secondo gli autori della ricerca, circa la metà di questi ha avuto successo.
Il numero complessivo di tentativi di colpo di Stato in Africa è rimasto notevolmente coerente a una media di circa quattro all’anno nei quattro decenni tra il 1960 e il 2000, secondo i due studiosi, con una lieve maggiore concentrazione negli anni compresi tra il 1960 e il 1969. Jonathan Powell sostiene che questo “non è sorprendente data l’instabilità che i Paesi africani hanno sperimentato negli anni dopo l’indipendenza”. Inoltre, è emerso che quando un Paese sperimenta un colpo di Stato, “diventa spesso più soggetto ad altri colpi di mano”.

Secondo lo scenario tratteggiato dalla ricerca, proprio il Sudan ha registrato il maggior numero di colpi di Stato e di tentativi di golpe da quando ha ottenuto l’indipendenza nel 1956: i due studiosi ne hanno identificati 17, di cui cinque riusciti, senza contare quello avvenuto lo scorso 25 ottobre.
A partire dagli anni Duemila, tuttavia, i colpi di mano in Africa sono scesi a una media di circa due all’anno e così sono rimasti nei due decenni successivi fino al 2019. Mentre nel 2020 ne è stato segnalato solo uno in Mali, quest’anno sta registrando un numero di rovesciamenti o tentativi di rovesciamenti notevolmente più alto della media.
A settembre, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha espresso preoccupazione per il fatto che “i colpi di Stato militari sono tornati” e ha accusato la mancanza di unità tra la comunità internazionale in risposta agli interventi militari. “Le divisioni geopolitiche stanno minando la cooperazione internazionale mentre sta prendendo piede un senso di impunità”, ha detto Guterres, denunciando nuove incrinature nella fragile stabilità democratica africana.

Di “focolaio di instabilità” ha parlato Jean-Léonard Touadi, giornalista, scrittore e accademico originario della Repubblica del Congo, nel corso del suo intervento alla conferenza “Sudan: il golpe della restaurazione?” organizzata dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).
Collocando il caso Sudan in una logica di influenze regionali e non solo, Touadi ha posto l’attenzione sulla portata che questa “tragica fibrillazione” potrebbe avere nell’area. Secondo lo studioso, ad essere determinanti nel processo di “arretramento della democrazia” sono sì fattori interni alle nazioni, determinati anche dalla pandemia, ma anche “dinamiche geopolitiche e geostrategiche” legate alle azioni delle varie potenze globali attive nel continente.

(Valentina Giulia Milani)

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