Una giornata con padre Stefano nel ridotto di Mogadiscio

di Enrico Casale
Stefano Tollu

di Francesca Spinola
Il 31 dicembre a Mogadiscio, Padre Stefano Francesco Tollu, cappellano militare della missione Eutm in Somalia si è svegliato a causa delle vibrazioni e di una sorta di «risucchio d’aria» nel suo container/stanza. Si trattava di uno dei due attentati con bombe dell’ultima giornata dell’anno nella capitale somala. Padre Stefano è a Mogadiscio da quasi 4 mesi in un incarico spirituale: ascoltare, amministrare i sacramenti, consolare, sorreggere, consigliare i soldati che gli sono stati affidati. Si tratta del contingente militare italiano in missione all’interno dell’Ita Nse (Italian National Support Element) e dell’Eutm-S (European Training Mission Somalia).

In una città continuamente straziata dagli attacchi dei terroristi di al Shabaab, padre Stefano, ogni giorno, dal 4 ottobre scorso, aiuta la sua comunità di soldati a trovare conforto. «Chiacchierate, cene arrangiate su bollitori di fortuna rese squisite dalla disponibilità e bravura del cuoco di turno, la Messa, una vera e propria babilonia di lingue, italiano, inglese, spagnolo, ugandese, finlandese e un tripudio di colori, quelli delle bandiere delle nazionalità dei nostri soldati mosse dal vento dell’Oceano Indiano che ci ricorda la sua presenza a pochi metri dal campus», racconta.

Nella realtà chiusa in cui si trova a vivere questa esperienza, non la prima in Africa – padre Stefano è stato missionario in Kenya e Angola – ma la prima in una zona di guerra e chiuso nell’International Campus dell’Eutm-Mogadiscio, il sacerdote italiano ha ricostruito una vita e una routine per i soldati della missione.

«Il martedì e il giovedì con i ragazzi ugandesi abbiamo promosso un coro aperto a tutti coloro che desiderano partecipare e subito sono arrivati spagnoli, italiani, sudanesi. Il martedì sera offro il servizio della catechesi ai ragazzi che desiderano prepararsi per ricevere la Cresima. Il venerdì sera, oltre alla Messa del mattino, celebro la sera una Messa in inglese, cui partecipano in maggior parte i lavoratori del campus di nazionalità ugandese. Il sabato pomeriggio vado a celebrare nella base dell’African Union Mission in Somalia (Amisom) in lingua francese, dove trovo i soldati del Burundi. La domenica abbiamo il day-off, quindi sto nel tempo libero con i ragazzi e alle 18 celebriamo la Messa domenicale con letture in spagnolo, inglese, italiano. È una Messa particolare dove si sente pregare in tante lingue contemporaneamente, ma trovo questa cacofonia stupenda e prova di come Dio unisca e non divida. Per le confessioni e per i dialoghi sono sempre a disposizione».

La dimensione dell’ascolto, spiega poi il sacerdote, è indispensabile data la realtà in cui i militari si trovano a vivere in Somalia, dove la pericolosità può creare forti stress emotivi, acuiti dal non poter uscire dal campus, se non con scorta armata e data la distanza dalle famiglie, condizioni che necessitano di una valvola di sfogo che lui tenta di rappresentare.

E mentre nel campus Eutm a Mogadiscio la vita va avanti secondo una certa routine, all’esterno è un continuo di attentati e sofferenze la cui eco arriva quotidianamente a scuotere la serenità dei soldati in missione.  «Gli attentati – spiega il cappellano militare – sono decisamente più frequenti di quanto non venga rappresentato dai mass media occidentali e visti da qui provocano un costante senso di sofferenza per i cittadini somali colpiti settimanalmente dalle barbarie di al Shabaab». La pericolosità della situazione a Mogadiscio rende le uscite dal campus quasi inesistenti per padre Stefano che ha però la possibilità di incontrare i mediatori culturali che lavorano con il Cimic (Civil-Military Cooperation), che svolgono un prezioso lavoro a favore della popolazione somala pur nelle difficoltà oggettive e che, in casi sporadici, ha contatti con rappresentanti dell’esercito nazionale e del governo somalo, che vanno in visita istituzionale presso l’International campus.

Padre Stefano resterà in missione a Mogadiscio ancora per altri 3 mesi e già racconta di essere certo che di questa esperienza porterà per sempre nel cuore la tristezza di non poter esprimere liberamente la sua fede, mitigata dalla gioia della celebrazione multiculturale e multi-linguistica dell’Eucarestia e soprattutto, con le sue parole, «la gioia del sentirmi sacerdote al servizio dell’uomo e non di una etnia, l’orgoglio dell’essere un italiano che servendo la Chiesa  e il suo Paese, serve tutti coloro che qui incontra».

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