Sudan, una soluzione del conflitto lontana e incerta

di claudia
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di Maria Scaffidi

“Il Sudan sta morendo dissanguato e il suo fallimento come Stato si sta avvicinando al punto di non ritorno. La questione è più grande di una guerra civile, più di una calamità umanitaria: la questione è se ci potrà essere uno Stato sudanese nei prossimi decenni”. Non è affatto ottimista Alex de Waal sulle sorti del conflitto in Sudan. Anzi, secondo il direttore esecutivo della World Peace Foundation che è grande esperto del Paese, il Sudan così come lo abbiamo conosciuto finora rischia di scomparire e trasformarsi in altro.

“Eppure – scrive in una lunga analisi – i diplomatici del Dipartimento di Stato americano, dell’Arabia Saudita, dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite trattano ancora il Sudan come un conflitto contenibile, suscettibile di un pacchetto di incentivi e di sanzioni”.

Ma, sostiene de Waal, le formule dei cessate il fuoco e degli aiuti umanitari semplicemente non rendono giustizia alla realtà del collasso dello Stato in un Paese di 45 milioni di persone. “Le forti dichiarazioni, tra gli altri, dei capi di Stato africani e del Segretario di Stato americano Antony Blinken, hanno sottolineato che il futuro del Sudan risiede nella leadership civile. Ma non c’è un piano pratico per far sì che ciò accada”.

La guerra in Sudan è scoppiata il 15 aprile, contrapponendo le Forze armate sudanesi, guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, al suo ex vice e capo delle Forze di supporto rapido (Rsf), il generale Mohamed Hamdan Dagolo, detto Hemetti. Sette settimane di intensi combattimenti nella capitale Khartoum hanno visto centinaia di morti, danni ingenti alle infrastrutture della città, lo svuotamento della maggior parte della classe media e una crescente crisi umanitaria. Le 100.000 persone che sono fuggite all’estero – finora soprattutto in Egitto, Sud Sudan e Ciad – sono solo una piccola anticipazione di ciò che potrebbe accadere con il crollo dell’economia nazionale. Prima della crisi, c’erano già 13 milioni di persone – quasi un terzo della popolazione – che avevano bisogno di assistenza per soddisfare i bisogni di base. Questo numero, scrive il direttore della World Peace Foundation, aumenta di quasi un milione ogni settimana.

“Dieci giorni di intense pressioni statunitensi e saudite sulle due parti in conflitto hanno prodotto ben poco” sottolinea ancora l’analista. Durante i colloqui nella città saudita di Gedda, i rappresentanti di esercito e paramilitari hanno firmato un cessate il fuoco di sette giorni, iniziato il 22 maggio e rinnovato per altri cinque giorni. La motivazione dichiarata era quella di consentire l’ingresso degli aiuti umanitari. La tregua è stata in parte rispettata, soprattutto perché le due parti non erano in grado di sostenere combattimenti ad alta intensità. La settimana scorsa, i mediatori hanno pubblicamente criticato le parti in conflitto per i loro fallimenti e hanno chiarito che il loro sforzo aveva fatto il suo corso. “Al momento in cui scriviamo – è la presa d’atto di de Waal – la guerra è destinata a intensificarsi. L’esercito sembra intenzionato a lanciare una grande offensiva per cacciare le Rsf dalle sue roccaforti a Khartoum, mentre le Rsf si stanno mobilitando per attaccare altre città”.

Le sanzioni sono uno strumento, non una soluzione, ribadisce l’analista. “I mediatori di Gedda hanno dovuto affrontare tre problemi principali. Il più importante è che Hemetti e al-Burhan speravano ciascuno di assestare un colpo militare da ko all’altro e non volevano rinunciare a questa possibilità. In secondo luogo, l’esercito è una coalizione frammentata di unità dell’esercito, paramilitari e islamisti, uniti nell’opposizione alle Rsf di Hemetti, ma non molto di più. I delegati dell’esercito agli incontri di Gedda non avevano l’autorità per fare concessioni su un cessate il fuoco e ancor meno su questioni politiche.

“La cosa più importante – conclude de Waal – è che il campo di battaglia è solo l’arena tattica. La competizione strategica è di tipo finanziario: quale parte avrà le risorse per espandere e consolidare la propria coalizione di combattenti e per ottenere il materiale bellico di cui ha bisogno. I sudanesi la chiamano “finanza politica”. Qualsiasi strategia di mediazione che non si basi sulla finanza politica sarà una perdita di tempo”.

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