“Sentirsi meno stranieri in terra straniera”, il caso dell’associazionismo senegalese

di claudia
Pape Diaw

Di Valentina GeraciCentro studi AMIStaDeS

Le associazioni dei migranti senegalesi sono protagoniste tanto attive sia in Senegal che nei Paesi di accoglienza. Il caso dell’associazionismo senegalese in Toscana è un esempio interessante, che fotografa il pluralismo di obiettivi, progetti e interessi propri alle comunità. Intervista a Pape Diaw, riferimento della diaspora senegalese in Toscana.

I sussidi economici, il mantenimento delle relazioni all’interno del gruppo e quelle con il Senegal hanno dimostrato fin dall’inizio che l’associazionismo senegalese non nasce come risposta emergenziale per rispondere a situazioni precarie ma ha puntato fin da subito alla creazione di un senso di appartenenza e di gruppo tanto in Italia quanto con il Senegal, seppur fisicamente lontani dal Paese.

Oggi, a distanza di quarant’anni dalle prime forme di associazionismo senegalese in Toscana, cosa è cambiato? Quali sono le conseguenze dettate dalla pandemia e della globalizzazione? Che ruolo giocano le nuove generazioni? Per un’associazione senegalese quali sono oggi i bisogni? Ne ho parlato nei scorsi giorni con Pape Diaw, storico mediatore senegalese, dal 1979 in Italia. Attivista da anni, Pape è un punto di riferimento per la comunità in tutta la Toscana.

Buongiorno Pape. Consapevole del tuo attivismo e dell’impegno che ti ha visto da decenni impegnato a Firenze e in Toscana a fianco della comunità senegalese, com’è cambiato nel corso di questi ultimi anni il mondo dell’associazionismo?

Innanzitutto buongiorno e grazie per l’invito. Parlare del tema dell’associazionismo migrante è fondamentale ai nostri giorni. Inizio facendo un salto nella storia. La prima associazione senegalese è nata in Toscana nel 1988 con uno statuto. Ricordo che nonostante fosse registrata come associazione a tutti gli effetti, a noi senegalesi piaceva chiamarla comunità. L’idea di comunità, al contrario dell’associazione, rappresentava per noi una realtà più inclusiva e solidale. Ci conoscevamo tutti e posso dire che questo ci ha permesso di sentirci meno stranieri in terra straniera. La domenica era un appuntamento fisso per magiare insieme il Thieboudienne o per preparare l’Ataya.

Oggi non è sempre così nel mondo delle associazioni migranti in generale. Forse sono ormai vecchio, forse solo nostalgico ma queste cose a me mancano. Ti muovi così velocemente tra un messaggio Whatsapp e una riunione su Meet e ti rendi conto di quanto la nostra realtà sia sempre più complessa.

Per noi senegalesi, come per tutti, con il passare degli anni cambiano interessi, motivazioni e progetti per il futuro. Tra i cambiamenti principali nella storia della nostra migrazione credo che prima si partiva per bisogno, nel corso degli anni Ottanta e Novanta principalmente. Oggi non è sempre così. I primi migranti senegalesi arrivati qui si spostavano dalla Germania o dalla Francia. Ricordo che a Firenze incontrai uno dei primi migranti senegalesi nel 1984. La gente era spinta dalla povertà. Si muovevano per lavorare e con la speranza di mantenere tantissime persone delle loro famiglie rimaste in Senegal.

Oggi molto spesso si parte con dei piani più strutturati in testa, con il desiderio alle volte di rientrare in Senegal e, ancora, con degli esempi di migrazione in famiglia che possono essere motivo di confronto. Anche la mentalità è cambiata. Con la globalizzazione è diventato tutto un po’ più complicato. Giovedì 5 maggio abbiamo avuto l’occasione di discutere con l’ambasciatore senegalese a Firenze ed è stato un momento interessante per mettere sul tavolo del confronto una serie di punti (e di difficoltà di gestione), che interessano l’associazionismo senegalese oggi. Abbiamo parlato delle nostre responsabilità, di quello di cui il governo senegalese potrebbe (o dovrebbe) prendersi carico rispetto alla diaspora ma anche dei problemi relativi ai tanti giovani senza documentazione che presentano qui domanda d’asilo. Ai tempi sicuramente alcune nostre lotte erano diverse. Alcune restano uguali.

Foto di Simone Sapia

La presenza senegalese in Italia e, in particolare in Toscana, è fortunatamente ancora comunque tanto attiva. Abbiamo anche un coordinamento regionale che raccoglie le associazioni dei senegalesi in tutta la regione e, insieme, continuiamo a lottare per i nostri diritti. È chiaro che anche noi nel corso degli anni, e in un mondo che cambia velocemente, abbiamo perso un po’ la forza. In passato scendevamo per strada due, tre, quattro volte fino a quando il comune non accettava di riceverci e sentire le nostre richieste e i nostri problemi. Posso dirti che eravamo anche più ascoltati. Oggi per noi africani sono ancora numerose le difficoltà. Un esempio, tra i tanti, trovare un affitto è diventato veramente quasi impossibile.

Quale è stato secondo te il momento che più di tutti ha marcato questi cambiamenti?

Con l’approvazione della Bossi Fini e gli anni del berlusconismo. Ricordo una campagna martellante in un periodo in cui, tutto sommato, in Italia non c’erano episodi particolari di razzismo e, come ti dicevo, eravamo più ascoltati. Ritengo che quegli anni lì e quella legge abbiano sdoganato il razzismo.

Oggi noi parliamo di discriminazione ma quel che spesso non si dice è che l’ideologia è molto più pericolosa degli atti in sé. In quegli anni la destra stava lavorando proprio sull’ideologia e ha creato una serie di pregiudizi, tutt’ora parte della cultura del Paese.

Le realtà di oggi a tratti mi intimoriscono. Mi spaventa l’individualismo che toglie spazio alle comunità. La comunità dovrebbe rappresentare un rifugio, uno spazio nel quale puoi vivere la tua quotidianità con gli altri e sentirti ancora più rappresentato. La comunità dovrebbe essere uno spazio safe, soprattutto per i più deboli e vulnerabili.

Oggi il concetto di comunità deve però stringere patti con questo mondo qui, con questa società e deve scendere a compresso anche con il capitalismo, ragionando e misurando tutto in termini economici. Nonostante questo ti dico però che la comunità senegalese cerca comunque di rispondere e stare in piedi. Sono diverse le iniziative e i momenti che ce lo ricordano. Da ultimo nel periodo del Ramadan. L’associazionismo senegalese può essere infatti un esempio per altre comunità di stranieri in Italia. Il nostro modello è nato per rispondere con una sola voce alle difficoltà vissute una volta arrivati in Italia. Ci siamo sempre uniti per scendere nelle piazze e parlare per le scuole, per i nostri diritti, per quelli più giovani e per essere riconosciuti abbiamo fatto scioperi e giornate insieme.

Da ultimo con la pandemia cosa è cambiato?

La pandemia ha creato veramente tanti danni nella vita dei migranti qui in Italia, soprattutto se pensiamo al mondo del lavoro e a quel che ne segue. A questa e alle altre difficoltà che il virus ci ha posto davanti, abbiamo risposto con forme di solidarietà auto organizzate. Tra le iniziative, abbiamo presentato un appello in rete e creato una pagina Facebook, chiamata Covid clandestino, per raccogliere donazioni e aiutare chi in difficoltà.

Le associazioni senegalesi, per fare qualche esempio, hanno raccolto soldi e fatto collette, comprato del cibo e consegnato il tutto a chi ne aveva più bisogno. Non solo all’interno delle associazioni e tra senegalesi ma anche a persone di altre comunità migranti e a persone italiane.

In un certo senso posso dirti che per noi senegalesi la sofferenza è però stata doppia. Saprai che noi da qui inviamo periodicamente rimesse alle nostre famiglie in Senegal e alle volte queste sono le uniche loro fonti di reddito. Nel corso della pandemia, con il problema del lavoro, queste sono diminuite drasticamente. I ragazzi che qui in Italia non lavoravano più, oggi si stanno muovendo e cercano di darsi da fare per loro e per le loro famiglie.

In questo le associazioni, per quel che possono, cercano di supportarli ma i tempi sono davvero difficili. Oggi tutti i rappresentanti delle associazioni devono necessariamente lavorare per vivere e coordinare i lavori. Gestire e supportare un’associazione migrante vuol dire rimetterci personalmente in termini di quattrini. Sei tu, come responsabile, che devi autofinanziarti e autofinanziare le tue attività. Occuparsi dell’associazionismo ha dei costi e oggi, in questi tempi qui, le associazioni stanno riscontrando più difficoltà rispetto al passato. Posso dirti che funzionano molto bene le associazioni senegalesi religiose, la cosiddetta dahira. Nel corso della pandemia le dahire hanno offerto moltissimi mezzi e comprato tanti beni di prima necessità per le famiglie qui in Toscana e non solo.

In breve, nonostante la pandemia sia stata un momento molto critico per la comunità senegalese, tutti si sono mossi da un punto di vista della solidarietà. Ognuno ha fatto quel che poteva.

Foto di Simone Sapia

Momenti di difficoltà come quelli legati alla pandemia fanno vedere la forza di una rete. Che legami ci sono tra l’associazionismo senegalese in Toscana e le altre associazioni senegalesi nel resto del Paese?

Abbiamo tanti rapporti con le associazioni del Nord e del Nord-est. Pensa che le prime associazioni in queste aree sono state fondate da ex migranti senegalesi, che erano in Toscana e sono poi andati a Brescia, a Treviso o a Verona. Il fatto che i fondatori di queste associazioni erano prima in Toscana ha fatto sì che i legami tra queste regioni continuassero a essere vivi e frequenti.

Per i fatti accaduti vicino Ponte Vecchio qui a Firenze qualche settimana fa, quando un nostro connazionale è stato nuovamente vittima di discriminazione e violenza, le associazioni senegalesi di Bologna, Reggio Emilia, Brescia e di altre città italiane sono scese nelle strade fiorentine con i loro striscioni in un’unica grande voce.

Oggi la rete aiuta molto e le associazioni lavorano insieme anche nei rapporti di confronto e di cooperazione con il Senegal. Quel che vedo è che le associazioni senegalesi al Nord del Paese funzionano un po’ diversamente rispetto a quelle toscane, del centro e del sud Italia. Sono, come dire, più organizzate programmaticamente, più pragmatiche e forse più vicine a un pensiero industriale, considerando che hanno lavorato e lavorano in realtà più stimolanti con opportunità diverse rispetto a chi vive in aree meno interessanti da questo punto di vista.

Più in particolare, quello su cui penso sia giusto puntare oggi è proprio la maggiore cooperazione tra il Nord e il Sud del Paese. Qualcosa si è già mosso. Già negli anni Novanta ricordo che ci incontravamo a Roma per le nostre riunioni, muovendoci da tutta Italia e supportando con una cifra simbolica ciascuno le spese di viaggio dei nostri fratelli in situazioni più complesse.

Oggi abbiamo una grande realtà senegalese a San Severo, Casa Sankara, e ci sono tante personalità senegalesi che si muovono per raggiungere questo obiettivo di rete, coesione e unione. Mi viene in mente un giornalista senegalese, molto attivo sui social e sul web, che ultimamente è stato a Foggia per raccontare le realtà dei senegalesi sul territorio nazionale.

Ecco, penso che l’associazionismo debba lavorare e creare una cooperazione fra senegalesi del Nord e senegalesi del Sud, rafforzando e puntando molto di più, oggi come ieri, sulla forza della rete e dell’interconnessione.

Tra i temi più attuali parlando di diaspora senegalese anche la migrazione di ritorno volontaria e l’imprenditoria migrante. L’associazionismo senegalese è un canale di supporto e di accompagnamento per chi vuole tornare?

Quello dell’imprenditoria è un settore che personalmente seguo poco ma è un tema di cui si parla tanto, anche all’interno delle nostre comunità. Ci sono tante realtà e gruppi senegalesi interessati, che parlano e danno informazioni ai nostri connazionali sui bandi pubblicati e sulla possibile ricerca di fondi.

L’aspetto che però percepisco urgente è il bisogno di prestare più attenzione in cosa e come si investe. Non bisognerebbe investire in un settore che non si conosce bene solo per il piacere di fare soldi. Io vedo che tanti senegalesi oggi hanno bisogno di conoscenze più specifiche sul tema dell’imprenditoria, sui settori di investimento e sulle modalità. Non parlo di diplomi e titoli di studio ma di esperienza e conoscenza di settori che negli anni cambiano e subiscono modifiche e innovazione. Basti pensare al passaggio da tecniche di agricoltura tradizionale alle realtà più moderne.

In passato, qualche anno fa, avevamo proposto un corso di formazione e aggiornamento nel settore agricolo in collaborazione con l’Università di agraria- Scienze forestali della città di Firenze. La scelta è nata da una considerazione prettamente numerica, con la maggior parte di migranti senegalesi che hanno raggiunto Firenze e circondario da realtà e aree rurali. L’obiettivo di questa iniziativa, purtroppo fallita per motivi gestionali, è stato quello di formare dei tecnici in orticoltura in modo che i giovani partecipanti potessero acquisire una formazione specifica in più rispetto al sistema tradizionale.

Oggi più che mai ritengo che le associazioni dovrebbero essere supportate in questo settore, quello della formazione e dell’informazione per non cadere in esperienze mordi e fuggi o in realtà che si mostreranno più complesse e articolate di quel che credono.

Foto di Simone Sapia

E le nuove generazioni?

Ci sono nuovi modi di pensare e nuovi approcci rispetto ai problemi. Quel che è certo è che le nuove generazioni hanno strumenti culturali e di confronto molto più elevati rispetto a quelli che avevamo noi in passato. Ci sono tanti giovani senegalesi che oggi si impegnano nel mondo dell’associazionismo e per la comunità qui in Toscana. È un esempio l’Associazione G2 Valdera, associazione di seconde generazioni, che è oggi parte di un progetto che lega loro e noi a COSPE onlus nel Progetto Nouvelles Perspectives per formare e informare i giornalisti sul tema della migrazione senegalese e per sensibilizzare i giovani, le famiglie e la comunità sul tema della migrazione irregolare.

Sempre qui in Toscana ti porto anche l’esempio di un ragazzo, che ha ricevuto tante minacce a causa del suo attivismo. Oggi è importante perché, come ho detto a lui direttamente, la speranza delle vecchie associazioni senegalesi – e la mia speranza in prima battuta – è la nuova generazione. Sono i nostri giovani. Noi ci siamo per loro, ma loro devono prendere in mano le nostre battaglie. Noi saremo dietro, a supportare e consigliare. Lo dimostra anche l’attivismo delle nuove generazioni nel mondo della cooperazione internazionale che muovono per la creazione di collaborazioni con quartieri e villaggi senegalesi per investire in istituti scolastici e nel mondo delle infrastrutture dell’area per darti ancora qualche esempio. Noi siamo accanto a loro a portare la nostra esperienza. Saremo forse indietro con i tempi ma una cosa è certa, ci stiamo muovendo!

Alla luce del vostro passato e davanti a questi giovani, quali sono le tue sensazioni oggi?

A volte sono stanco ma penso che la forza dell’associazionismo abbia perso peso in generale, non solo per la comunità senegalese. In occasione dell’incontro con l’ambasciatore la scorsa settimana, ho fatto espressamente presente che si sono problemi che sicuramente sono a carico del governo, della classe politica e delle ambasciate ma tanto altro deve essere una priorità per ciascuno di noi, per la comunità senegalese tutta.

Stare a capo di un’associazione è una missione che la persona deve sentire dentro, a prescindere da appartenenze politiche che ostacolano e limitano l’operatività della rete. Io ho avuto la fortuna di avere un padre sindacalista molto tenuto in Senegal, che mi ha sempre ricordato la responsabilità delle scelte che facciamo. Presiedere un’associazione vale a dire avere una responsabilità morale ma anche una responsabilità divina. Anche se oggi la società è diversa e i tempi sono diversi, i diritti degli esseri umani e di noi stranieri qui in Italia sono sempre gli stessi.

A me questa globalizzazione spaventa molto e ciò che mi spaventa ancora di più è la velocità in cui le notizie nella rete viaggiano ma sono ancora fiducioso. L’essere umano è forte e so che troveremo sicuramente il modo di cambiare modalità di pensare e modalità di sentire. Quello che oggi è la grande bestia della nostra società è l’indifferenza, accompagnata dall’egoismo.

Come si può rispondere e colmare questi vuoti? Hai in mente delle soluzioni concrete?

Le associazioni senegalesi, come tutto il resto, devono stare a passo con i tempi e cavalcare l’onda dei cambiamenti per rispondere con iniziative visionarie davvero funzionali sia per i senegalesi presenti nel Paese d’accoglienza sia per le relazioni con il Senegal stesso. Non possiamo agire come organizzazioni non governative, ma credo che dovremmo iniziare a ragionare come queste per dare una mano e creare nuovi partenariati su diversi settori. Bisognerebbe aprire una riflessione su questo punto e investire su formazioni e aggiornamenti delle persone che sono qui. E non solo. Oggi sta cambiando anche la percezione sulla migrazione non regolare dei più giovani in Senegal. Quando sono andato nel Paese con COSPE, ho conosciuto e visto con i miei occhi il lavoro tanto utile sul tema promosso da professionisti ed esperti.

In generale, credo che bisognerebbe creare una specie di piattaforma neutrale e apolitica grazie alla quale confrontarsi e lavorare direttamente tra Italia e Senegal, insieme. Ne sono esempi Waaxtaanu diaspora, che ha portato avanti e promuove tutt’ora un lavoro interessante sull’associazionismo e la diaspora senegalese in Italia dopo il Covid ma altrettanto importante è il lavoro di Papa Demba a Pontedera – vicino Pisa- che attraverso radio e tv diffonde messaggi importanti. Ci sono diverse realtà che, su questo modello, passano da diffondere messaggi legati al mondo della migrazione a racconti di attualità. Si rivolgono ai senegalesi sia in Italia che in Senegal e lo fanno con la lingua wolof. Con questi canali web, radio e tv senegalesi in Italia, è possibile diffondere dei messaggi, parlare di esperienze personali e condividere emozioni, paure e obiettivi tra le due sponde. Finisco però col dire che, per avere una visione d’insieme, oggi è assolutamente necessario portare avanti il concetto francese di mixité nelle nostre associazioni. È quello che succedeva in Francia già parecchi anni fa. Oggi un’associazione composta solo da senegalesi non ha più senso di esistere. C’è bisogno piuttosto di scambi, confronti e riflessioni che possono essere funzionali solo se abbracciano punti di vista nuovi e diversi.

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